Intervista a Pesce Khete

di Paola Pluchino

Pesce Khete, da dove deriva questo nome?

E’ il mio vero nome!

Potrebbe sembrarti una domanda banale, ma perché dipingi?

Perché a volte ho la sensazione di sapere dove mettere le mani.

Su Flash Art dicembre/gennaio dici di essere un autodidatta, qual è quindi il monito che ti ha spinto verso la pittura?

Il mio avvicinamento alla pittura è stato quantomai naturale. Semplicemente un giorno di qualche anno fa mi resi conto che in libreria ero più attratto dagli Art Dossier piuttosto che dal manuale di Biologia. Non sono una persona portata alla pura teorizzazione. Approfondisco ciò che mi piace, e poi cerco di rifarlo. Mi piacciono di più le cose che riesco a rifare. Anche la Biologia è una mia grande passione, ma non ho nessuna predisposizione con la matematica. Con la pittura ho avuto molti meno problemi che con la Statistica.

 

Questa fine dell’anno ti  ha visto coinvolto in un doppio vernissage: presso il  MARCA a Catanzaro e a Milano come gestisci questa notorietà?

Ho un’idea un po’ diversa della notorietà..


Quale Galleria ti sostiene?

Prima di tutti The Flat – Massimo Carasi, che ha avuto il coraggio e l’intuizione di pescarmi nell’Oceano.

A quali movimenti pittorici ti ispiri?

So che potrebbe apparire come una risposta poco simpatica, ma a nessuno in particolare, ammesso che si possa parlare di veri e propri movimenti. Penso che sia cosa comune apprezzare nel corso degli anni cose anche apparentemente molto diverse tra loro. Con la maturità si è sempre meno sensibili agli stili, e sempre di più alla sostanza.

Ultimamente sono rimasto impressionato da una mostra del pittore svizzero Cuno Amiet.

Pensi che il mondo dell’arte sia troppo saturo di “padroni” o  credi che invece i grandi maestri debbano continuare nell’indicare e promuovere talenti?

L’Italia è il paese dei giovani artisti no? Realmente, non mi sono mai posto questa domanda.

Se potessi tu stesso organizzare una collettiva, quali artisti porteresti con te?

Da qualche tempo sono molto più attratto dalla fotografia, e dedico una grande parte del mio tempo a lei. Se dovessi organizzare una collettiva oggi inviterei Sylvain Emmanuel P. , Alba Yruela e Rafa Castells. Posso chiedere anche a Wolfgang Tillmans?

Come rispondi a chi sostiene che nel panorama delle arti visuali rimane poco spazio per la pittura tradizionalmente intesa?

Che basta solo navigare su qualche blog internazionale per farsi un’idea differente.

Ti senti condizionato dai curatori  che sostengono il tuo progetto?

Non direi. Semplicemente nelle collettive mi affido totalmente alla personale visione del curatore, mentre nelle personali tendo a fare tutto per conto mio. Ovviamente l’allestimento è la prova finale nella preparazione di una mostra, il momento in cui confluiscono le infinite suggestioni accumulate nel corso del tempo.

Come difenderai la tua personalissima poetica?

Credo che sia al sicuro perché si muove indipendentemente dalla mia volontà.

Passiamo all’uso dei materiali

A differenza del pittoricismo classico, tendi a usare una cromia squillante, con degli inserti pittorici in linea con quell’Art Brut di Dubuffet e Fautier che incantò la società materica, tuttavia, nel tuo essere naive rimani sempre figurativo. Inconsapevolmente sei un ibrido stilistico. Ora, fuori dagli schematismi teorici, tu come definiresti il tuo stile?

E’ chiaro che non potrei definire uno stile. Penso di non aver mai ragionato in termini di stile. Anzi, non si può che essere sospettosi di qualsivoglia stile. Ciò che a me importa è di poter affrontare qualsiasi soggetto senza limitazioni di “genere”. Il soggetto non è che un pretesto privo di un contenuto didascalico. Ha un senso di rimbalzo, al quale non lavoro razionalmente.

Anche la matericità di cui parli non è frutto di una scelta quindi, ma probabilmente deriva dal mio bisogno di dare vitalità alla superficie. E’ semplice comunicazione.

Anche l’allestimento che scegli abbraccia l’idea del precario, dell’imperfetto, del non finito, i tuoi sembrano quaderni d’artista, perché questa scelta?

In verità nell’allestimento tenderei verso la perfezione, o almeno alla mia idea di perfezione. Non avendo cornici, i miei dipinti sono abbastanza difficili da allestire, ed è per questo che cerco sempre di farlo personalmente. Quando non mi è possibile, purtroppo anche il materiale usato per appendere a parete i dipinti tende ad assumere la sua rilevanza e la sua vistosità, mentre io tendo a renderlo il più asettico possibile, per non intteragire troppo con i due veri protagonosti: il singolo dipinto, l’insieme dell’allestimento.  Non sono io il responsabile delle imperfezioni di cui parli! (sorride)

Quando dici che la cornice crea una distanza, “raffreddando” l’energia vitale dell’opera cosa intendi?

Intendo che la carta e il colore dell’oilstick sono di per sé dei materiali caldi. Olio, odore, pieghe della carta, provocano dal vero un rapporto molto intimo con chi ci si trova davanti. Il vetro, o il plexiglass, sono riflettenti  e respingenti. Isolano la materia dall’atmosfera circostante e provocano una distorsione, una distanza. Esattamente ciò che ricercava Francis Bacon.

Quali i tuoi prossimi progetti?

Accumulare energie per un nuovo ciclo di dipinti. Ragionare su cosa mostrare all’imminente Fiera di Bologna. Sperare che la Kodak non fallisca.

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