Michael Johansson

Paola Pluchino. Celebre è la serie dell’albero di Piet Mondrian dove i rami, a uno a uno,  valicano la superficie aerea della composizione in una spinta propulsiva, e di invasione dello spazio, che innalza -e bilancia- la linea. Dalla territorialità intrinseca della natura e dalle radici che generano il corso dell’altezza, Mondrian fece sparire la linea curva, in favore di una purezza delle forme compositive e di un rigore geometrico, che da solo, poteva spiegare il pensiero sintetico dell’artista. Una visione, oggi, condivisa da Michael Johansson, in cui sembrano rinnovarsi gli stessi precetti: l’ossessione del pi greco, l’uso dei colori primari, le costruzioni geometriche solide – solo apparenti assemblages rubikiani- trasmettono allo spettatore una fortissima umanità, un riaversi dell’oggetto che ha però mutato forma, rimanendo come memoria, fantasma, apparizione. Sarebbe riduttivo definire Michael Johansson un semplice assemblatore: nella linea di congiunzione tra Mondrian, il minimalismo di Sol Lewitt e le ardimentose prestazioni degli artisti site specific, l’artista pare dotato di maggior fervore e diplomazia, di maggiore spirito critico e capacità interpretativa. Un mondo in metamorfosi che cerca di organizzare un senso, di porsi delle categorie, pure e pratiche, in cui riconoscersi, mostrarsi e definirsi. La geometria come spirito razionale in tendenza al perfettibile lascia però un piccolo margine di errore, lo stesso in cui si insinua l’architettura di un pensiero magmatico e ossessivo, lontano da quei cardini lineari che a prima vista parrebbero esaurire il discorso intorno all’opera. Johansonn, 35 enne svedese sviluppa così, nel cumulo perfettamente posto, l’ipotesi che sia lo spettatore a conversare, a gettare il legamento per liberare la potenza della griglia dal suo fare per ascisse e ordinate, ricreando così uno spazio nuovo, una fruizione del tempo a metamorfosi.

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