Per una radiografia dell’arte delle città

Sebastiano Miele. La maggioranza degli abitanti del pianeta vive ormai in città. Cultura “tradizionale” ed economie di mercato globalizzate si contendono spazio pubblico e poli di sviluppo di queste città tentacolari. Uno spazio pubblico, quindi, sempre più privatizzato e controllato, o posto sotto il segno di una nuova forma di “sovranità globale”, che Tony Negri chiama Impero. Ma questo processo, in certi contesti, sta cambiando forma. Sta diventando fiction, finzione. Ovvero una creatività senza limiti, se non quelli prescritti dal mercato, che alimenta la confusione sui confini tra l’arte e la “creatività comunicativa” o le industrie dell’intrattenimento. Questa fiction ha ormai invaso i territori originali dell’arte, con una disinvoltura tale da far pensare che una certa arte critica e sociale sembra aver fatto il suo tempo. Specie in tempi di salita al potere dell’individualismo di massa, con buona pace delle grandi utopie. Ciò non impedisce comunque una certa popolarizzazione dell’arte contemporanea, che prende forme molteplici. Prima di tutto accompagna lo sviluppo di megalopoli postmoderne e lo spostamento di vecchi quadri di riferimento. Dakar, Singapore, Istanbul, Dubai hanno ormai il loro posto sulla scena dell’arte contemporanea, con le loro biennali e le loro fiere. Poi si traduce in una mutazione di scala delle esposizioni, che passano dello stadio artigianale allo stadio industriale. Esposizioni globali destinate a più luoghi,  sulla scia di quello che alcuni chiamano l’impero dell’effimero, della delocalizzazione/rilocalizzazione dell’opera d’arte su supporti multipli, ma comunque strutturati attorno a un’opera-evento su grande scala, come nel caso della land art di Christo e Jeanne-Claude.

Popolarizzazione, spettacolarizzazione, teatralizzazione, mediazione. Solo alcune delle tante parole che vanno nel senso di quest’apertura dell’arte contemporanea in direzione della città. Parole che suppongono il rovesciamento della figura dell’artista in “traghettatore”, implicando la decostruzione del dispositivo (ritenuto alienante) della rappresentazione, a vantaggio di un impegno più diretto nella coreografia della città.

La situazione risulta particolarmente fumosa. L’arte deve confrontarsi con l’impietoso regno del mercato dell’arte, entrato fin nella riflessione sull’arte e la critica. Ma anche con le complicazioni di un’arte sociale in bilico fra disincanto post moderno e re-incanto della modernità. Ed anche con un’arte critica che dovrebbe aiutare lo spettatore a uscire dalla sua passività, nel tentativo di accompagnarlo nella presa di coscienza del processo di alienazione.  Infine, con un’arte votata direttamente alla realizzazione di questa emancipazione, attraverso installazioni e dispositivi alternativi, che puntano alla riconfigurazione di rapporti sociali di tipo “comunitario”, degli spazi e delle istituzioni dell’arte contemporanea (come nel caso dell’estetica relazionale). Si promuove così una sorta di “arte comunitaria pubblica”, che poggia sulla messa in scena dei particolarismi etnici, sessuali e sembra abbandonare l’esigenza dell’universale per altre forme di pensiero. Ad ogni modo si nota come l’arte contemporanea non riesca nei suoi tentativi di emancipazione. In questo fallimento i media trovano un terreno fertile di cui approfittare senza ritegno. Ora, se è vero che la scena dei media è diventata lo stesso spazio pubblico e le arti dello spazio pubblico, pur cercando di resistervi, non posso ignorarlo, una “radiografia” dell’arte delle città fa sorgere qualche domanda. Occorre pensare che l’opera d’arte non debba compromettersi nella mediazione culturale, nell’attenzione posta al pubblico, nei diversi particolarismi? La responsabilità della mediazione andrebbe allora scaricata, come vorrebbe Alain Badiou, all’istituzione, alla fatalità della comunicazione, del mercato. Oppure occorre immaginare un nuovo pensiero di uso sociale dell’arte? Un pensiero che sarebbe compatibile con delle iniziative locali di solidarietà nuove, di luoghi virtuali di creazione collettiva in cui rinnovare un’intelligenza e una sensibilità “di rete”, distintive dell’urbanità contemporanea. Non sembra delinearsi ancora nessun vero modello, ma si capisce che gli schemi delle opposizioni classiche hanno fatto il loro tempo. Oggi non possiamo più porre arte e industrializzazione del simbolico, arte e comunicazione, solo nei termini dell’arte critica, o della critica delle industrie culturali ereditata dal modello della scuola di Francoforte. Anche perché esiste una capacità propria dell’industria che non può più essere ignorata e le arti contemporanee diventano, in un certo senso, anche delle arti industriali.

Alle domande appena evocata se ne potrebbe allora aggiungere una terza, un po’ più suggestiva. Ovvero se l’arte, in queste città globalizzate, non possa aiutarci a vivere insieme. In che senso? Quello proposto nel XV secolo da Nicola Cusano, secondo il quale “guardare un’immagine è sempre sentire appoggiarsi sulle proprie spalle tutti quanti, nel nostro spirito, la stanno vedendo con noi”. O nel senso in cui Proust, nella Prigioniera, parla della “composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che, senza l’arte, non conosceremmo mai”. Deleuze dice che egli fa dell’arte un segno essenziale del nostro tempo, senza cui noi non potremo vivere. L’opera d’arte diventa così una necessità contro l’imperativo globalizzato della cultura e della comunicazione. Certo, l’opera d’arte non comunica niente e non ha niente da comunicare (e in questo paradossalmente somiglia alla comunicazione!). Una “comunicazione senza comunicazione” che è diventata una figura imposta del pensiero contemporaneo. Ma bisogna fare attenzione al rischio di una doxa dell’incomunicabile, che sarebbe come la reificazione di una modernità che comunque non finisce di reinventarsi, di liberarsi dei suoi canoni. In questo senso la modernità nelle arti cessa di essere un riferimento eterno. La comunicazione, nel bene e nel male, è anche l’“orizzonte d’attesa” dell’arte. Sarebbe vano credere che l’arte se ne possa astrarre. Per cui l’arte critica o, piuttosto, la critica nell’arte, nel senso etimologico di “mettere in crisi”, separare, spostare i piani e approfondire le differenze, è tutt’altro che scomparsa. E in questo terreno misto si collocano delle opere interessanti. Opere che sembrano ignorare l’idea di un determinismo assoluto delle direttive del mercato. Che rifiutano l’ipotesi di una strumentalizzazione dell’arte per la sua prossimità alla moda, alla pubblicità, all’industria culturale, ma che a volte sanno addirittura conviverci. E rifiutano pure la malinconia delle avanguardie e della modernità. Jacques Rancièr afferma che non esiste arte “integrata” o arte “resistente” definibile da criteri precisi, stabiliti una volta per tutte. Esistono dei momenti in cui delle forme di oggetti, delle forme di azioni, ripopolano dei mondi differenti, dissensuali, enigmatici. C’è un gioco di scarti, un’“inadeguatezza funzionale” tra l’opera e il suo pubblico. C’è un enigma costitutivo, dato dalla resistenza che l’opera impone a un’interpretazione troppo trasparente delle sue intenzioni. Ed è qui che risiedono le possibilità di un’apertura infinita dei suoi effetti nel campo sociale e storico e della sua appropriazione, inventiva e fiduciosa, da parte del pubblico. Di un nuovo pubblico, inteso come una coalescenza di “io e noi”, che finisce per imporre le sue necessità a questo difficile “vivere insieme separatamente” diventato il destino comune della città globale. Contro l’evocato doppio determinismo in cui si è tentati di racchiudere l’arte dei nostri tempi, diverse opere testimoniano un profondo stravolgimento delle relazioni tra arte, città e pubblico. Attraverso una modernità rivisitata dalle arti della strada, città asservite a “opere aumentate”, un’arte dei media geolocalizzata, una riapertura del dibattito sulle relazioni dell’artista nel contesto di un’industrializzazione dell’arte contemporanea, o attraverso le forme della fiction cinematografica. Nel riformulare la questione dell’arte e l’estetica della città, tutto ciò apre lo spazio a quella libertà di cui le opere d’arte consistono, destinate più a permetterci di leggere dentro di noi, di capire noi stessi e gli altri, che a essere lette, capite, partecipate, “interattivizzate”.

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