La drammaticità ironica di Mark Jenkins approda a Berlino

Uno scultore iperrealista porta in scena storie di emarginazione urbana e d’ironica provocazione sul palcoscenico delle nostre strade. I passanti con le loro reazioni ne diventano gli attori inconsapevoli.

Elisa Daniela Montanari. Berlino – Il 19 gennaio ha aperto i battenti, alla galleria Gestalten Space di Berlino, la prima mostra personale in Germania di Mark Jenkins, Glazed Paradise, che si prolungherà fino al 26 febbraio. L’artista americano, divenuto famoso per le sue installazioni urbane iperrealiste, presenterà gli scatti fotografici documentativi dei suoi lavori realizzati in tutto il mondo e nuove sculture create appositamente per l’evento. In occasione dello stesso la galleria Gestalten ha elaborato la sua prima monografia, The urban theatre: Mark Jenkins che verrà messa in vendita a edizione limitata con la possibilità di comprare insieme a questa anche un’opera in versione ridotta, firmata e numerata dall’artista.

Mark Jenkins, quarantunenne nato in Virginia, sassofonista prima e web designer dopo, inizia la sua carriera artistica nel 2003 a Rio de Janeiro, piazzando una delle sue sculture a fattezze umane fatte di scotch e pellicola trasparenti, in una discarica pubblica per attirare l’attenzione dei bambini. Da allora sia la sua tecnica che la sua ironia, non sono mutate, se non raffinandosi ulteriormente.

Le sue perturbanti sculture nascono per le strade o per gli interni pubblici, cercano l’interazione con gli spettatori ma soprattutto cercano una loro reazione. E come si potrebbe d’altronde non reagire a un uomo disteso a faccia in giù in un fiume, di cui si vede solo la parte posteriore o a una bambina con la faccia voltata verso un angolo della strada che dà le spalle al suo orsacchiotto preferito che giace in terra calpestato dai passanti. Ma soprattutto la reazione è inevitabile quando chi, mosso da compassione o spavento, chiama l’ambulanza o la polizia e, una volta avvicinatosi, scopre che l’uomo o il bambino non sono altro che manichini.

L’intento di Mark Jenkins è quello di realizzare un esperimento sociale, le reazioni del suo pubblico diventano parte dell’opera, che si trasforma in un esteso happening, che lui tenta di documentare attraverso scatti fotografici i cui soggetti sono: ilarità, rabbia, tristezza, compassione, scandalo, noncuranza. E’ lo stesso artista a dichiarare la sua volontà di portare le persone ad alzare gli occhi dai loro telefonini e interagire con il mondo che li circonda, chiedendosi talvolta cosa è reale e cosa non lo è.

I suoi manichini vitrei vestiti di veri abiti e parrucche, rappresentano spesso realtà emarginate e malinconiche con cui i passanti si identificano e che spesso scatenano emozioni, anche forti. Ma non tutte le sue opere sono indirizzate alla denuncia sociale; la serie Storker Project è costituita da tante piccole sculture trasparenti sottoforma di neonati nelle pose più ironiche e divertenti. Questi bambini rappresentano tra l’altro la firma dell’artista, con la stessa valenza di una Tag per un Graffiti Artist.

Le sue installazioni urbane seguono le stesse sorti di tutto il fenomeno della Street Art. Possono durare un’ ora, un giorno o una settimana ma prima o poi verranno inghiottite dalla città pulsante per la quale sono create. La lunga durata è garantita solo alle esposizioni in galleria, necessarie, come afferma lo stesso Jenkins, se non si vuole rimanere nella dimensione amatoriale, ma sicuramente limitanti rispetto al potere di reazione che le sue opere possono provocare sul pubblico. Così come per gli altri Street Artists il passaggio dalla strada alle Istituzioni è necessario, anche se non senza gravi perdite. Mark Jenkins quel salto lo ha compiuto anni fa partecipando a numerose collettive, ma la fama è arrivata con la sua prima personale a Londra nel 2007, dove ha iniziato a vendere le sue prime opere. Da allora ha partecipato tra gli altri, alla Biennale di Mosca (2009) e alla Kunsthalle di Vienna (2010), organizzando anche una scenografia per il teatro berlinese “Hebbel am Ufer”.

L’arte di Mark Jenkins sembra essere l’ultimo stadio di quel percorso che ha portato l’opera d’arte urbana a cercare un’interazione sempre maggiore con lo spettatore, per sfuggire alla condanna dell’invisibilità. Secondo Robert Musil, in Pagine postume pubblicate in vita, “nulla al mondo è più invisibile di un monumento”. Pensati e realizzati per essere visti, “anzi, per attirare l’attenzione”, sembrano in realtà ricoperti da una sostanza che li rende impermeabili allo sguardo, che “vi scorre sopra come le gocce d’acqua su un indumento impregnato d’olio, senza arrestarvisi un istante”.

Speriamo almeno che un uomo annegato in un fiume non subisca mai la stessa sorte, soprattutto perché ci si accorge del suo esser manichino solo a breve distanza.

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