Forever Kitsch. Andrea Salvatori , l’arte come battuta


Di C. S.

“Lei dimentica tutto quanto un abile sezionatore può fare con i vivi (…) Certo, ci sono stati dei piccoli tentativi: amputazioni, recisioni della lingua, estirpazioni (…) Ebbene, nel caso delle estirpazioni si verificano alterazioni di ogni genere, di carattere secondario: alterazioni del pigmento, psichiche, o, nei tessuti grassi, di secrezione. Senza dubbio, lei avrà sentito parlare di queste cose.”[1]

Queste parole pronunciate dal mitico dottor Moreau, uno dei personaggi piú noti nella letteratura di fantascienza, appartenente al romanzo di Herbert George Wells, sono la perfetta  premessa per introdurre il lavoro di Andrea Salvatori, enigmatico e particolare artista romagnolo che ha fatto della ceramica parte fondamentale del suo lavoro.

Come Moreau cercava l’umanizzazione di creature animali tramite diversi processi di vivisezione, asportazione di tessuti e trapianti di arti, Salvatori ci invita ad entrare al suo mondo,costituito da piccoli interventi, nel quale si unisce l’estetica del ‘700, con quella delle prime generazioni di manga e comics giapponesi introdotti in Europa durante i primi anni Settanta e il gusto per il kitsch. Salvatori, nel suo studio, unisce il suo amore per il design, il suo fascino per l’antiquariato, per la tradizione e per i metodi artigianali; e come un animista dà vita a un variegato ventaglio di soggetti e di raffigurazioni surreali che fanno parte del suo immaginario personale.

Andrea inizia a lavorare con la ceramica per caso perchè “me lo sono ritrovato” dice lui, forse la vicinanza con Faenza, nota cittá per l’elaborazione di questo materiale lo ha influenzato, ma in realtá non é stata una cosa cercata, è nata con il tempo e forse anche dalla sua giovane collaborazione come asistente di  Bertozzi&Casoni quando studiava all’ istituto d’arte; collaborazione che occupó gran parte del suo tempo dalla fine dei suoi studi all’accademia di Belle Arti di Bologna e che dura ancora oggi.

Il primo lavoro abbinato alla sua tesi di laurea sul Kitsch, divenne fondamentale per far scaturire i suoi “piccoli oggetti da comodino” .Già nelle foto scattate in Spagna in cui lui era il soggetto principale,  con camicia hawaiana davanti a fondali costituiti da monumenti noti,  giocava a mettersi nei panni del turista: erano i suoi primi sperimenti quasi performatici nei qualli metteva in discussione la suo identità e il suo ruolo come artista creatore, con un tono ironico e giocoso. Da lì, il passo fu brevissimo: la fotografia con lui come soggetto diventò statuina, un oggettino piccolo, da comodino con il centrino,  il suo autoritratto da solo o  con altre figurine. Queste prime sculture erano pensate come giochini, piccoli interventi,  come i baffi della Gioconda, sulla quale si faceva la battuta, lo scherzetto. In questo senso le porcellane del  ‘700 costituvano il ready made giusto sul quale intervenire, soprattutto perchè con loro portavono tutta quella tradizione, che lui aveva vissuto anche a casa sua delle nonne e le zie che per moda collezionavano queste donnine o coppie d’ innamorati, souvenir dei matrimoni, battesimi e festeggiamenti vari, che diventavano oggetti da comodino , abbinati al centrino in macramè.

È sempre un gioco che si mantiene al confine, per esempio nei primi lavori nessuno si accorgeva dei piccoli interventi, come per esempio una piccola damina con un coltello.

Col passar del tempo il suo lavoro inizia a diventare piú raffinato ed elegante, lascia da parte il senso splatter  e un po’ volgare  delle donnine settecentesche che imitando l’esempio di San Giorgio abbattono il drago o  che, con diversi colpi d’ascia, squartano il mostro della palude. I colori iniziano a scomparire, e anche il sangue, predilegendo la sobrietá,  le tonalita chiare e i monocromi, grigi e bianchi; i suoi oggetti acquistano una sfumatura piú poetica e seria lasciando da parte la battuta ma mantenendo comunque l’ironia. Un ironia piú fine, come quella dello scheletro  con la linea:” l’ironia c’é ma, la figurina sberleffa, l’iperrealismo o con  le stelle, dove la damina classiche del ‘700, raffinattissima sta sotto il  peso astratto di questa  figura inesistente nella realtá.”

Il voler mantenersi nel limite tra reale e irreale, è uno degli elementi piú interessanti del lavoro di Salvatori, che miratamente introduce nei suoi pezzi degli elementi che in natura non potrebbero mai esistere, come il cerchio, il cilindro e la sfera, figure che non possono costituire per esempio la formula chimica di un minerale.

L’importanza della forma prende il sopravvento e diventa la leva fondamentale della sua ricerca, la forma scultorea è quella che vale, come con i sassi, rocce contenitori o rocce candelabro, che inizia a realizzare nel 2010. In principio la roccia interveniva sopra un oggetto, lo schiacciava o modificava, sbarazzandosi del ready made, diventa un oggetto unico, permettendogli di unificare la sua doppia  ricerca tra scultura e oggetto di design o oggetto d’uso.  Le rocce diventano “nuovi paesaggi”, piccolo paesaggi zen, che partono dalla semplice idea che ogni oggetto al quale tu fai un buco diventa subito un oggetto contenitore o un porta oggetti, un oggetto funzionale.

La roccia porta libro, diventa libreria sepoltando[2] per esempio, all’ interno della sua fessura l’arte dei rumori di Luigi Russolo, assordandolo e nascondendolo metaforicamente sotto terra. Sono oggetti ripresi dalla natura che con un semplice intervento, con uno smalto bianco lucido che ricorda le porcellane del Settecento o con uno grigio opaco, tipo carta pesta, sono trasformati  in oggetti finti, kitsch pronti per essere messi sul comodino.

Poco  a poco la ricerca  inizia a complicarsi ed  è quello che a lui piace di più, il momento nel quale gli oggetti si unificano e  diventano un tutt’uno, gli oggetti Kitsch cominciano ad essere aggrediti dalla ceramica, al punto di farli quasi sparire: il pixel, la figura geometrica interviene sul soggetto. Il cane ricoperto da quadrati, muta quasi  in un mosaico tridimensionale, ed il senso del maniacale e della delicata laboriosità iniziano ad essere prelevanti. Il ready made diventa un’ ispirazione esterna, il punto di partenza o semplicemente quel piccolo e sottile intervento con un altro materiale, come la pirite, l’ottone, il vetro e la plastica.

Andrea Salvatori lavora con la ceramica, ma non si piega al materiale, lo utilizza perchè è funzionale a ciò che vuole esprimere, Io utilizza come semplice materiale strumentale alle sue esigenze. Il suo gusto per esso gli permette  di godersi piacevolmente le lunghe fasi del processo di elaborazione, che molte volte diventano  quasi ossessive, stranianti da tutto, e dando la possibilitá di lavorare in quello stato per interi mesi: “Lo sforzo fisico costringe il tuo cervello a pensare sempre, finchè sei convinto che  intraprendere un determinato lavoro sia la cosa giusta, mentre lo fai ti convinci di portarlo avanti, di abbandonarlo perchè non ti soddisfa o semplicemente ti sembra inutile, così decidi di lasciarlo perdere, o può succedere che da lì nascano altre idee, oltretutto la ceramica è così imprevedibile che non sai mai come verrà il lavoro quando esce dal forno, ad ogni procedimento può esserci  un imprevisto, una crepa, uno smalto venuto male. Comunque, molte volte, l’imprevedibilità del materiale mi ha portato ha fare delle bellissime cose, ad esempio una base che nel forno era scoppiata io l’ho utilizzata in quella maniera, una rottura totale che diventa parte del lavoro,  un rosso che diventa un viola.”

In questo ultimi anni i suoi lavori sono molto piú maturi e complessi. Adesso le figure fanno parte di un unico mondo, fatto da solidi e piccole figure geometriche,  dove continua a mantenersi il gusto per il curato, per i soggetti ben definiti e la mania per il particolare, una mania meno palese e un gusto per una battuta ora piú seria ed enigmatica che congiunta con l’ironia, sottolineano la sua spiccata volontà di condurre a una riflessione. La semplice facezia diventa una critica verso certe problematiche e dinamiche sociali che sono messe alla luce, in modo sottile, leggero e raffinato come lo sono le sue sculture, create in modo tale da dare meno fastidio allo spettatore.

Incontrare Andrea Salvatori lascia con la sensazione che forse tra un paio di anni potremmo vedere una delle sue figurine in mezzo ad una piazza. Forse il David tutto ricoperto da solidi che imponente dall’alto (ci) prende in giro, ma per il momento ci accontenteremo della possibilità di vedere alcune delle sue opere nella personale NAIV VAIN, visibile dal 21 aprile ad Imola.


[1] H.G.WELLS, L’isola del dottor moreau, Ugo Mursia Editore,  capitolo XIV.

[2] Derivato dallo spagnolo sepultar – seppellire

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