Il giro del mondo in 3000 battute

Prendi William Congdon a Venezia, poeta del colore, fratello del più celebrato Jackson Pollock, indagando sulla sua vita e sulle sue amicizie, presto si svela la sua conoscenza, trasformata in una duratura liason, con Igor Stravinskij.

Navigando nel mare magnum dell’informazione la pittura si trasforma in azione e muove la ricerca delle fonti, delle somiglianze, dei fili e dei legamenti delle personalità. Da Stravinskij, la sponda d’obbligo appare la Russia zarista, rinnovato colosso dai piedi d’argilla che oggi si svecchia, vestendo i panni del contemporaneo. Cosi, al Museum of Multimedia Art di Mosca, ecco che il popolo russo celebra la propria foto – biennale, forse meno conosciuta e apprezzata dell’oltre moda del Whitney Museum di New York, e che suscita meno curiosità e interesse mediatico nel mondo calibrato sull’avanti veloce della critica d’arte.

Tuttavia, a ben guardare, la biennale moscovita riserva più di una sorpresa, rivelando un sistema arte, sinergico e complesso: dagli scatti di Wim Wenders all’inversione dell’Image Maker di Ingmar Bergman, dal memoriale di Steve Jobs (con una mostra del giovane fotografo Doug Menuez), al chiacchieratissimo Ai Wei Wei. In Germania invece, altro punto nevralgico per l’arte contemporanea, che ha tra l’altro dato i natali ad eminenti studiosi come Adorno e Thomas Mann, arriva la 7a Biennale d’arte tedesca.  Da tempo all’attenzione del sistema underground artistico, una città capace di far convergere al suo centro con forza centripeta e ascendente,  le migliori iniziative e mode dell’arte. Dai quartieri alternativi che a Schönberg dedicano memoria, su su lungo quello che fu il muro di Berlino, la East Side Gallery, oggi trasformata nel più grande museo a cielo aperto del mondo, si arriva a Kruezberg, multietnico e infinito conversare di eccentriche personalità. Questa biennale, rispecchia paradossalmente, e purtroppo solo in parte, lo spirito avanguardistico e infinitamente visionario degli studi d’artista tedeschi, proponendo una biennale arrabbiata, affidata con lungimiranza, e qui a tre anime diverse: Artur Żmijewski, Joanna Warsza  e al collettivo Voina. Dal 27 aprile la settima biennale indagherà e si interrogherà sul ruolo precipuo dell’arte e di come essa può rendersi veramente politica: dalle contestazioni che vengono dal Medio Oriente, fino al citizen journalism, che impone un dibattito sulla ricontestualizzazione e sullo status di fruizione artistica. Così, dalle terre d’oriente coperte dalle memorabili tratte dell’Orient Express, o dai commerci navali -ancor più antichi- che legavano l’Impero della croce dell’Est alla Serenissima, a distanza di anni, le spire del vento ricongiungono i porti (quei nodi di informazione che internet permette) immaginando un viaggio nei secoli e nelle arti che i poeti e gli scopritori, appena cent’anni fa, potevano solo sognare. Vis mentis, potere della mente che immagina, permettendo di scoprire somiglianze sottili ed elettive affinità, oltre l’opacità deprecabile della lingua contemporanea, fatta dall’azione binaria del botta e risposta. Così che il commercio di Vollard appaia reticolare.

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