Ridere in lingua yiddish

Giuditta Naselli

“Tanto tempo fa, da qualche parte nell’Europa dell’est, un viaggiatore arrivò in una shtetl in pieno inverno. Lì fuori nella sinagoga, un vecchio stava seduto su una panchina, tremando per il freddo.
“Cosa fate qui?”, domandò il viaggiatore.
“Aspetto la venuta del messia”.
“Un incarico davvero di grande importanza”, disse il viaggiatore. “Immagino che la comunità vi paghi un congruo compenso per questo”.
“Niente affatto”, disse il vecchio. “Non mi pagano nulla. Mi lasciano soltanto star seduto sulla panchina. Giusto ogni tanto esce qualcuno e mi porta qualche cosetta da mangiare”.
“Dev’essere dura”, osservò il viaggiatore. “Ma anche se non vi danno nulla, avranno per voi certamente una grande venerazione dal momento che vi siete assunto questo incarico così gravoso”.
“No per nulla”, fece il vecchio. “Pensano tutti che sia pazzo”.
“Non capisco”, disse il viaggiatore. “Non vi pagano. Non vi rispettano. Ve ne state qui al freddo, a battere i denti, affamato. Che razza di lavoro è questo?”.
Il vecchio rispose: “è un lavoro fisso”

Tratto da Franco Palmieri, La letteratura della terza diaspora, Ravenna, Longo, 1973.

La storia degli ebrei è la storia di un popolo, disperso in migliaia di comunità, che nel corso di venti secoli ha alternato periodi di benessere – in cui si  è affermato nel paese che abitava, assumendone la lingua e partecipando alla vita sociale e culturale – a periodi di persecuzione e di esilio.

Il popolo ebraico, più di ogni altro, ha esorcizzato la tragicità della sua (S)storia approdando al mondo dell’arte e servendosi dell’umorismo come strumento di comprensione umana e come arma in grado di ridicolizzare i potenti e i persecutori.

La sfera artistica si trasforma, per l’ebreo, nell’unica sede in cui poter manifestare la necessità di confrontarsi con gli ostacoli e con i limiti impostigli e la comicità diventa la metafora di una degenerazione psicologica, derivante dalla mancanza di una classificazione sociale e dall’impossibilità di integrazione in un ordine umano precostituito. Costretto ad imparare mille lingue e a dimenticare la sua, l’uomo di cultura ebraica adotta la lingua universale del comico, e, svilendosi e squalificandosi, prende in giro se stesso e la società ospitante.

Il luogo in cui lo humor ebraico trova la possibilità di formarsi e raffinarsi, prima del teatro e del cinema, è la narrativa popolare dell’Europa dell’Est(,) che, con i suoi giochi di parole, racconta la paura delle persecuzioni, le crisi d’identità, la nostalgia per la vita semplice delle comunità e i rimorsi per l’abbandono delle tradizioni di un intero popolo. Dal racconto al palcoscenico il passaggio è breve: prima il teatro e poi il cinema diventano mondi paralleli in cui l’ebreo,  sdoppiandosi e mascherandosi, vede, con gli occhi di un altro, meglio se stesso e gli altri.

Mentre gli ebrei russi creano il socialismo e gli ebrei austriaci indagano la psicanalisi, gli ebrei americani partecipano alla nascita del capitalismo (americano)statunitense, finanziando l’economia ed assumendosi tutti i rischi di imprese senza precedenti.

La terza diaspora, infatti, porta al lento e definitivo abbandono dell’Europa dell’est, e con essa si dissolve lo stile di vita unico dello shtlel, che l’immigrato ebreo cerca di ricostruire in terra americana, custodendo e tramandando gli usi e i costumi. I resti della cultura dello shtetl, in Europa, forniscono le basi per la trasformazione del teatro viennese, che ormai ha del tutto assimilato la lingua tedesca e lo yiddish, e in America edificano la macchina industriale hollywoodiana, tanto che la Universal, la MGM, la Paramount, la Fox , sono tutte creazioni di immigrati ebrei europei.

Il sogno americano offre all’umorismo ebraico la possibilità di crescere e maturare, favorendo il sorgere di un ampio ventaglio di comici: dal mondo anarchico e folle dei fratelli Marx a quello poetico di Chaplin, dal carismatico ed energico schlemiel Danny Kaye al bambino mai cresciuto Jerry Lewis, dall’esilarante Gene Wilder, che con Mel Brooks parodia l’intero mondo del cinema, al nevrotico e autoreferenziale Woody Allen.

In diversi modi, i comici americani di origine ebraica ridendo di sé, smascherano e sculacciano moralmente una società, che si è affermata nel mondo per i suoi ideali di libertà e democrazia. Con un umorismo violento ed amaro parlano di verità, assumendo un linguaggio, come quello comico, che può essere compreso ed assimilato dall’uomo di qualsiasi provenienza sociale.

La cultura ebraica ha dimostrato, come l’arte, e in particolare il cinema nel mondo moderno, riesca ad avventurarsi nella giungla dei fenomeni materiali e ad esplorare le capacità delle forze sociali. Con il gesto sovversivo di una risata il comico di origine ebrea demolisce i limiti e le barriere che costringono l’uomo moderno ad una vita costipata dagli oggetti e dalla paura dell’altro. Il ridere si eleva a momento catartico che libera il cuore e le menti di chi vede e ascolta, scuotendo sia le coscienze che le insaziabili immaginazioni.

 

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