Serialità e revival di genere: il caso “Game Of Thrones”

Davide Borgna. Lanciata da HBO lo scorso 1 Aprile, la nuova stagione di Game of Thrones conferma la vitalità della produzione seriale americana. In un momento in cui i generi cinematografici arrancano o appaiono esauriti nella ripetizione di formule stantie, i network televisivi offrono un ventaglio di prodotti in grado di resuscitare i modelli narrativi che avevano reso grande la Hollywood del passato: nessun filone sembra escluso dalla straripante creatività delle serie, si tratti di noir (The Killing), gangstermovie (Boardwalk Empire), gotico (American Horror Story), melodramma (il bellissimo Mildred Pierce di Todd Haynes) o western (Hell on wheels). In quest’ottica la televisione assume un ruolo analogo a quello delle major di un tempo, che governarono l’intrattenimento di massa fino agli anni 50. Soprattutto ne eredita l’immaginario e lo spirito produttivo, coniugando l’efficacia spettacolare con la finezza narrativa.

 

Di questa fioritura del prodotto seriale Game of Thrones è un esempio significativo, a partire dalla capacità di rapportarsi in modo proficuo e mai servile al testo letterario. La saga di George R. R. Martin (giunta al quinto volume) rappresenta uno dei pochi cicli romanzeschi in grado di conquistare una venerazione pari a quella dell’universo tolkieniano. La trasposizione televisiva ne restituisce l’impianto polifonico affidandosi al cast capitanato da Sean Bean, che interpreta il signore di Grande Inverno, Eddard Stark. L’uomo nobile, il puro, il guerriero dai giusti ideali viene chiamato nell’insidiosa Approdo del Re per servire come consigliere del vecchio amico e sovrano, Robert Baratheon. La dimensione politica del fantasy, spesso negletta o sminuita, è visibile nella rappresentazione della Capitale, incentrata su una rete di apparenze, manipolazioni e inganni. Niente è come sembra e l’intrigo avvolge le stanze del potere. Emblema e feticcio di questa rappresentazione è il Trono di Spade, oggetto di una disputa dove non contano più l’ideologia, i valori contrapposti. Ciò che importa, nelle parole di uno dei personaggi – il mellifluo Ditocorto – è la contesa in sé, “il gioco”.

Se la trasposizione HBO sfoltisce inevitabilmente la mole di personaggi e plot secondari dei romanzi, ne conserva però l’umore disincantato e, potremmo dire, “crepuscolare” (come crepuscolari erano molti film degli anni ‘60 e ‘70 che si rapportavano al genere mescolando straniamento ed elegia). In Game of Thrones i personaggi devono, in maniera e con esiti diversi, affrontare l’inadeguatezza: essa può causare l’emarginazione sociale e geografica, come nei casi simmetrici di Jon Snow (che paga le sue origini bastarde con il servizio pressola Barriera, imponente vallo ai confini del mondo) e Daenerys, di nobile lignaggio ma spodestata e costretta all’esilio in terre esotiche. In Tolkien l’imperfezione dell’eroe si riscattava nello spirito cooperativo; per Martin non ci sono Compagnie dell’Anello, e il dramma dei personaggi si misura nell’incapacità di assumere un ruolo stabile, privo di contraddizioni: Ned Stark è il nobile per eccellenza, ma le sue virtù sono incompatibili col gioco politico del Reame. Jaime Lannister, il guerriero perfetto, è schiacciato dal marchio di “Uccisore di Re” che lo condanna ad un’esistenza priva di onore. Suo fratello Tyrion, l’unico a denotare umanità e intelligenza nella corrotta casata dei Lannister, subisce il pregiudizio legato al suo aspetto fisico.

La serie conserva la focalizzazione “multipla” ereditata dai capitoli del romanzo, alternando le vicende dei protagonisti tramite una regia che sfugge alle tentazioni più roboanti (glissando ironicamente sull’unica battaglia della prima stagione). Prima ancora delle scene d’azione, impagabili sono i confronti verbali tra i personaggi: i dialoghi secchi, spesso infarciti d’ironia o di turpiloquio, concorrono a smitizzare il mondo cavalleresco e l’ideologia cortese del fantasy. Se l’ultimo episodio Fire and Blood aveva lasciato i Sette Regni sull’orlo della guerra, la seconda stagione promette una lotta feroce per il Trono e schiude nuove frontiere della trasposizione audiovisiva, ricche di auspici per i mondi narrativi (seriali e non) del futuro.

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