Un labirinto a pois

Yayou Kusama alla Tate di Londra

Mimmo Vestito. Overture. Quando mi recai a Londra per la prima volta nell’estate dell’ormai lontano 2007, mi comportai davvero da turista modello, ai limiti della banalità. Costeggiai il lungo-Tamigi e visitai un numero imbarazzante di musei, ma quella prima volta a Londra commisi il grave errore di non fare tappa al Tate Museum, e ancora oggi mi chiedo il motivo. Dopo ben 5 anni, in occasione di una mia nuova visita nella City ero intenzionato a non compiere lo stesso sbaglio, e avere la possibilità di vedere la mostra di Yayoi Kusama, mi sembrava l’occasione perfetta.

Aperta dal 9 maggio al 5 giugno, l’esposizione comprende una selezione delle opere più rappresentative dell’artista nipponica, ormai attiva da oltre sessant’anni, affiancate da materiali e oggetti di repertorio, vere e proprie chicche dell’epoca. Nata a Matsumoto nel 1929 da una famiglia giapponese della classe medio-alta, Kusama comincia sin da giovane la sua attività artistica, disegnando schizzi e dipingendo. Nella tarda adolescenza intraprende lo studio della pittura giapponese tradizionale, ma dopo poco tempo lo abbandonerà, stanca dei dettami di convenzione, aprendosi alle correnti americane ed europee, attingendo dai libri e dalle riviste straniere.

La condizione post-apocalittica in cui versava il Giappone, negli ultimi anni ’40, in seguito alle esplosioni nucleari, ha corrispondenze dirette nelle sue prime produzioni: i dipinti esprimono un senso di devastazione, miseria e morte, reso sia attraverso l’utilizzo di colori caldi e cupi, sia nelle raffigurazioni di scenari desolati e desertici, da cui nascono forme aggrovigliate ed intrecciate tra di loro, dai contorni sfumati, in un’atmosfera claustrofobica di oppressione. La scelta dei soggetti devia negli anni ’50, unitamente alla sperimentazione di nuova tecniche (tempera, pastello, acquerelli). E’ riscontrabile in queste opere un certo interesse per i fenomeni naturali, reinterpretati in chiave surrealista; sono raffigurate uova, fiori e alberi, in combinazione con simboli che ricordano geroglifici: occhi, puntini, reticolati di ciglia. La scelta cromatica appare in questo periodo diversa, si ritrovano tonalità più accese, applicate a forme che sembrano appartenere alla micro-biologia, ripetute psichedelicamente.

Gli Infinity Net sanciscono il suo arrivo negli USA, evento che decreterà una sua rinascita artistica. È con queste opere che si inaugura la sua attività più intensa e significativa. Su tele di grandi dimensioni, vengono accostati una miriade di puntini scuri attraverso delicatissime e vicinissime pennellate, in contrasto con un tappeto di vernice chiara. Una gestualità meditativa e ossessiva insieme, sembrano aver accompagnato la loro composizione. L’effetto reso è ipnotico, la tela sembra avvolgerti e fagocitarti.

Una nuova frontiera è raggiunta con le Accumulation Scutures: oggetti quotidiani (mobili, vestiti, accessori) dipinti e ricoperti di forme tentacolari in stoffa imbottita, evidenti simboli fallici, o di pasta. Sono probabilmente l’espressione di una sorta di feticismo dell’oggetto moderno, esasperato dalla voracità crescente della società dei consumi.
L’Aggregation Boat è la più rappresentativa di questa serie: una barca provvista di remi, ridipinta di bianco e ricoperta delle solite forme falliche imbottite, posta al centro di una stanza semibuia, sulle cui pareti, soffitto e pavimento sono affisse foto in bianco e nero della barca stessa. Attraverso una forma deviata di mise en abîme, Kusama replica le modalità ossessive della produzione di massa.

Orientale, donna, immigrata, Kusama incarnava appieno lo status di outsider nella New York degli anni ’60. E’ in questo contesto che si colloca una sua performance, documentata attraverso decine di fotografie in proiezione. Interpretata con toni marcatamente critici e polemici contro gli assetti socio-culturali americani, la messa in scena pone lei stessa come protagonista: errabonda per le strade della metropoli, vestita con un kimono, in mano un parasole, circondata da un paesaggio ostile, desolato e inospitale per una straniera solitaria.

In proiezione anche il film Self Obliteration, produzione che risente delle influenze della cultura e dell’ambiente hippie, un girato in cui si susseguono immagini frenetiche e confuse di bizzarre danze orgiastiche in cui uomini e donne dipingono sui loro corpi dei pois.

Gli ultimi deliri non sono altro che la materializzazione concreta del dedalo interiore di Kusama, ricostruito all’esterno in due installazioni che ci rapiscono e ci traportano in una dimensione parallela, dove le sue ossessioni e allucinazioni si fondono con il quotidiano. In I’m here, but nothing, una stanza arredata è completamente ricoperta da adesivi puntiformi colorati e illuminata da una luce soffusa, in Infinity mirror room una costellazione di piccole luci intermittenti colorate, pendenti dal soffitto, sono moltiplicate all’infinito per effetto degli specchi; la paura di muoversi e perdersi induce quasi alla paralisi.

Ma è ora di uscire, di aprire la porta, ritrovare la luce e tirare un sospiro, ancora ignari di esserci svegliati da un sogno o un incubo, nella testa di Yayoi Kusama.

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