Il Controvalore

Paola Pluchino. Ho avuto il tempo di pensare tutta la notte alla giusta idea per scrivere questo editoriale. Di sera, quando il sole cala celando i raggi della sua creazione, i pensieri si fondono seguendo l’amalgama spuria del prevedere, a conti fatti, quale rapporto possa instaurarsi tra ciò che dico e ciò che accadrà. Ma la contemporaneità in cui viviamo oggi, banalmente, non ha più tempo di prestare attenzione alle delicate osservazioni che i giovani avanzano, ancor più se queste non sono spendibili, né in termini di sonata celebrativa né nei termini di compravendita.

Tuttavia, a buona memoria, proprio questo è sempre stato il luogo dei villani, ossia il luogo in cui i commercianti, strana razza di affaristi, mercanteggiavano beni in cambio d’oro, proponendo una cosa con valore più basso per guadagnarci; in poche parole, invitando l’acquirente al debito.

Questo principio speculativo ordito da sapienti ha portato oggi all’assunto, turpe e deprecabile: possesso uguale valore. Lungi da me voler affermare teorie dal taglio facilmente bakuniniano, sostenendo l’abolizione della proprietà privata, e con esso anche il possesso. Sarebbe d’uopo che la produzione e lo scambio culturale avvenissero sotto l’egida di una prospettiva più fluida e attuale, una risorsa condivisibile, pur legittimamente appartenente al singolo.

Ci si chiederà cosa c’entra questo con l’arte, con quell’universo che, visto da fuori, appare pieno di eleganti lacchè e fantasiose opere, spesso incomprensibili espressioni del pensiero che si fa materia. Gente “altra” che non ha problemi di soldi, che non riflette sulla catastrofica crisi economica che la generazione a noi precedente, cioè coloro che anche leggono queste righe, ci ha lasciato sgradevolmente in eredità.

La bocca si fa bella intendendo che i tempi sono duri e bisogna prepararsi al peggio. Tuttavia, ciò i grandi economisti della domenica non pensano, è che la costruzione di un universo migliore, debba essere retto da un nuovo perno, da altri magnetismi che sostengano e che si sostituiscano all’ardore economico del passato.

Bene, quello che io penso, è che l’assunto del profeta che scalava la montagna e in solitudine meditava per produrre l’opera che avrebbe elevato gli spiriti, in tempi in cui, la pancia rumoreggia, non sia la soluzione.

Mi stupisco e piacevolmente quindi, che tanti ragazzi, pur nelle beghe parentali del dover spiegare ai genitori perché Lettere invece che Economia, siano affascinati e contribuiscano alla creazione di questo giornale, che ha lo spirito del dono, primigenio parto dell’economia. Questa generazione prova con tutte le forze a ridisegnare un’economia propositiva e forte, intervenendo nella comunità. A quali squali ci rivolgiamo non lo sappiamo mai, e cosa si ordisce dietro di noi nemmeno. Ciò che muove questo genere d’iniziative è il convincimento che le bolle, eccellente simbolo della vanitas, siano destinate a scoppiare, a perdersi in quell’aria di cui sono fatti gli spiriti insapienti.

I testi che seguono abbracciano la speranza (idealista e immatura, per citare i vecchiardi) che il talento sia una carta vincente, che gli studi compiuti improvvisamente si trasformino in qualcosa di nutriente, di innovativo, bacini in cui tanti altri singoli possano riconoscersi e convenire. Vorrei inoltre ricordare ai nostri lettori, che gli autori degli articoli, sono tutti giovani laureati, di modo da fugare ogni dubbio sull’eventualità che essi possano avere un qualche potere d’interesse nella riprovevole società economica che abitiamo.

Uno studente costa ad una famiglia, nell’arco della propria carriera, circa trentamila euro. Se voi foste delle persone oneste, e spero che voi lo siate, dovreste farvi i conti di quanto spendere per leggere le righe che seguono.

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