Quando Charlot divenne Charles Spencer Chaplin

Giuditta NaselliCharlie Chaplin in un’intervista di Benjamin De Casseres del 12 dicembre del 1920, pubblicata sul New York Times Book Review and Magazine, afferma: “Una volta ho avuto una visione a occhi aperti. Ho visto ai miei piedi, ammucchiati alla rinfusa, tutti i simboli e gli accessori del mito del costume di scena…i miei baffi, la bombetta malconcia, il bastoncino da passeggio, le scarpe rotte, la camicia dal colletto lurido. Mi sono sentito come se il corpo mi fosse caduto di dosso, come se stessi abbandonando un’eterna apparenza per un’immensa realtà”.[1]

Chaplin, una volta approdato al cinema, intuisce l’esigenza di creare una maschera nella quale la gente comune possa identificarsi, sublimando la propria condizione di emarginazione e indigenza.

Il regista si serve del personaggio del vagabondo, “Charlot”, per meditare creativamente sulla realtà contemporanea e per parlare al mondo. L’assunto centrale della sua opera è l’affermazione della dignità dell’essere umano e il rifiuto dell’alienazione contemporanea che rende l’uomo un mero burattino.

Le sue intenzioni pedagogiche si rintracciano maggiormente, però, sul finire degli anni Trenta, in quelle opere della maturità, in cui Chaplin stenta a mantenere il suo personaggio, non solo perché il cinema è cambiato con l’avvento del sonoro, ma proprio perché il mondo stesso ha subito una profonda metamorfosi, e non è più in grado di identificarsi nelle vesti di un vagabondo. Il regista è costretto a inserire Charlot nella macchina sociale, tanto che in Tempi Moderni (Modern Times, 1936) lo trasforma in operaio, mentre ne Il Grande dittatore (The Great Dictator, 1940) diventa prima ufficiale durantela Prima Guerra Mondiale e poi barbiere in un ghetto ebraico.

Il Grande dittatore è il film che segna una cesura nella filmografia e nella sintassi registica di Chaplin. Attraverso un banale espediente di scena, quale i baffetti, l’autore si serve della somiglianza tra Charlot e  Adolf Hitler, per creare un doppio cinematografico e allestire la perenne lotta tra il Bene e il Male, colpendo la banalità del male[2] di cui parla Hannah Arendt, che è la condizione esistenziale dei dittatori. Alla fine del film, Chaplin, spogliandosi del personaggio Charlot fa un appello al mondo, con una delle più coinvolgenti dichiarazioni di libertà per l’intera umanità che il cinema abbia mai prodotto. In un indimenticabile primo piano il regista inquadra se stesso, Charles Spencer Chaplin, e con un discorso di sei minuti cerca di trasmettere all’uomo i valori di pace e uguaglianza con una semplicità di tale potenza da giungere immediatamente al cuore degli spettatori.

“Non disperate. L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono il progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, ritornerà al popolo e qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Voi non siete macchine, non siete bestie, siete uomini…voi avete l’amore dell’umanità nel cuore” (tratto dal film The Great Dictator, 1940).

Con Il grande dittatore Chaplin trasforma il vagabondo in un eroe, non più in lotta per sbarcare il lunario, bensì pronto a combattere per un diritto più grande, quello di vivere da essere umano.

Il regista con la sua satira ridicolizza la realtà e il terrore della guerra e ci conduce in un mondo dove tutto è possibile, dove un piccolo uomo surclassa i potenti e parla al mondo, dimostrando come la comicità non abbia alcun carattere velleitario, ma, piuttosto, la lungimirante capacità di elevare gli animi e  destare negli spettatori un affamato sorriso che trangugia speranza.



[1] Charlie Chaplin, Opinioni di un vagabondo, Roma, Minimum fax, 2007, p. 83.

[2] Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2009.

About theartship