Rivalutare Kandinsky

L’intellettuale incontra l’arte

Paola Pluchino. Di Wassily Kandisky si è detto e scritto molto. Artista moscovita di famiglia benestante, comincia il suo percorso laureandosi in giurisprudenza, al seguito di una famiglia di ricchi commercianti. A trent’anni però, decide di abbandonare la via universitaria per dedicarsi alla pittura. La monaco di quegli anni vede fiorire i precetti dello Jungenstil e Kandinsky, al seguito della scuola d’arte di Azbè, diventa allievo di Franz Von Stuck.

Stefan George, poeta tardo simbolista sovrintende ai passi del primo Kandinsky, insieme al musicista Wagner che, secondo il  pittore, riesce ad esprimere la potenza cromatica dell’anima. Di Lohengrin disse “Non osavo dire che Wagner aveva dipinto la mia ora”.

Kandinsky, parte poi alla scoperta della scuola di Gropius, quel Bauhaus di Weimar in cui le più affilate intelligenze del periodo confluivano, interpretando l’arte nei termini di un condensato in cui la vita, la morte, l’abitare, il tempo e lo spazio si facevano forma e sostanza dell’ideale verità della conoscenza esatta e incantevole.

Gli studi di Kandinsky tuttavia, sembrano affondare le proprie radici in un terreno all’epoca vergine, un habitat in cui la bidimensionalità è colta dall’artista come un limite da superare, non ancora in termini d’aggetto o propriamente scultorei, o come il nostro intuito contemporaneo vorrebbe in site specific, ma secondo la linea sottile dello spazio psichico, alcova estetica e mondana a un tempo.

Così Kandinsky firma, nel 1912 (ma già del 1911 sono i primi bozzetti) la copertina del cavaliere azzurro, quel Der Blaue Reiter che contiene gli scritti teorici dei due fondatori (con  Franz Marc) oltre che interventi di Macke e Paul Klee. Come Eva Di Stefano annota nei suoi studi “hanno in comune un’esplosiva soggettività del linguaggio, il predominio sulla visione interiore su quella ottica”[1].

Lo spazio psichico, ossia lo spazio del pensiero, si attesta all’interno di una ricerca che non è meramente sulla forma finale della riflessione, ossia nel suo detto, ma indaga le fondamenta della stessa percezione, del dialogo mai interrotto tra spirito e movimento interiore. Le opere di Kandinsky, così come gli affiliati Paul Klee, Emil Nolde, Kirchner, Erich Heckel, Alfred Kubin, Natalia Gontcharova, Michail Larionov, Kasimir Malevich, Robert Delaunay, Gabriele Münter, August Macke, declinano la forma astratta sulla curvatura della percezione vera e concreta della realtà, senza mai cedere al filtro straniante della rappresentazione.

La musica, nell’interpretazione di Kandinsky sembrava porsi come nume tutelare, come summa in cui tutte le altre arti potevano convergere, una difficoltà e una speranza a un tempo, una terribile verità e un’opportunità di conciliazione. Le sue opere, quadri musicali conditi da fasci luminosi e zone come peripatetici spazi del pensiero, sfidavano le più belle composizioni dell’epoca, la sua forma sfidava la sua forma, la sua origine sfidava la sua natura. Un’opera che voleva essere nodo cruciale, punto di passaggio tra il visibile e l’invisibile, specchio enfatico del movimento giocoso dell’armonia celeste.

Nel 1909 pubblica Lo spirituale nell’arte, uno scritto non completamente compiuto che vuole però porsi come cardine e punto di tangenza per successive speculazioni. In veste di teorico Kandinsky scorpora il principio della necessità interiore, indaga i blu, i gialli, i rossi e i verdi, il bianco e il nero, attribuendo ad ogni cromia il volto del sentimento e dell’emozione. I suoi scritti, ripresi ed elevati a poesia anche dai linguaggi cinematografici contemporanei (si pensi alla Trilogia dei Colori di Krzysztof Kieślowski, o allo stesso Lars von Trier) mostrano un costante confronto con coordinate interiori, il legamento al muto e incosciente andare della prigionia dell’estetica. Il colore si libera in forme, poiché nella sua stessa rappresentazione si cela la sua sostanza, nel principio di apparenza che decide la riduzione al minimo della manipolazione, intervenendo nel primario in luogo di un complesso.

Ogni idea, ossia ogni colore, oltre la sua mercificazione sociale, ha per Kandinsky una sua armonia, una sua energia o anima interiore, che sprigiona dalla tela. Il confronto delle parti in composizioni delle opere, agiscono sullo spettatore coinvolgendolo all’interno, avvalorando il progetto pervasivo che l’artista voleva compiere. Al pari della musica, e forse intellettualmente in maniera più forte di essa il colore detta il ritmo del vedere. In una manovra degna dell’intuito wagneriano, ossia quel Gesamtkunstwerk che al tedesco deve memoria (e una notevole quantità di epigoni), lo spezzettare cede il passo all’unire, al creare una sorta di rapsodia della coscienza, mite rifugio del dell’occhio che vede se stesso e nella trascendenza di entrambi si ricongiunge.

Uno studioso sobrio e composto, che seppe sfruttare il principio dell’allegoria per presentare l’invisibile, scrutando le teorie freudiane dell’inconscio, le avventure dinamiche delle avanguardie, che seppe porre le basi per una cultura dell’intelletto, ove non tutto di necessità doveva essere spiegato, dove l’interpretazione, nonostante la grandezza del pensiero che ne è alla base, doveva essere lasciato allo spettatore, condotto, grazie agli studi di colui che fa, attraverso termini e coordinate riconoscibili, senza per questo scendere al facile stilema dell’artificio. Avvicinandosi alle sue opere, prestando orecchio alla sua composizione, si sentirà suonare la dolce musica dei carillon, la vorace e perversa composizione del Tannhauser di Wagner, l’inquietudine di un uomo che ebbe l’urgenza di usare la tela come tavola pentagrammata.


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