ZINGARI A MILANO ED ARLES

Alessandro Cochetti. Si stanno per concludere le mostre che hanno fatto conoscere il lavoro Gitani di Josef  Koudelka agli appassionati di fotografia che hanno avuto l’occasione di passare alla Fondazione Forma di Milano o al Festival Internazionale della Fotografia di Arles durante questa estate 2012. A Milano la mostra è stata dedicata esclusivamente all’autore, il quale ha personalmente curato la disposizione degli scatti sulle pareti della galleria, mentre ad Arles si può apprezzare un’esposizione più piccola ma non meno interessante, tanto da essere sicuramente il fiore all’occhiello dell’intera manifestazione francese.

L’autore è infatti uno dei nomi più stimati del panorama della fotografia mondiale e attraverso questo suo lavoro, realizzato durante il corso dei primi anni sessanta presso i villaggi degli zingari della Cecoslovacchia, si possono apprezzare probabilmente tutti i caratteri distintivi del suo stile: dalla grande comunicatività degli scatti alla grande abilità nella ricerca formale.

Da profano della fotografia mi sono posto la domanda se le foto fossero davvero state scattate d’istinto oppure realizzate a tavolino. La sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro fatto per essere considerato come un reportage giornalistico è infatti forte ma, guardando con attenzione le foto, non si può non notare una perfezione nella composizione artistica ed estetica che rende le foto simili, per la composizione degli elementi, a dei quadri rinascimentali, nonostante il soggetto sia assolutamente sui generis.

Che Koudelka sia un fotografo attento al particolare fino alla maniacalità è cosa nota dopotutto, ma questa fusione tra istinto e senso estetico apparentemente studiato mi ha lasciato perplesso. La domanda da porsi di fronte a questo lavoro sorge dunque spontanea: che cos’è che ci colpisce  di Koudelka, la rappresentazione ed i suoi elementi compositivi in sé oppure le composizione plastica dei soggetti integrati perfettamente ai fondali, accentuata inoltre dai giochi sui contrasti tra il bianco e nero?

Da una parte infatti l’interesse immediato, quello che si ha ad una prima veloce osservazione, è appunto dato dal soggetto in sé. Che la popolazione gitana susciti un grande interesse in qualsiasi osservatore è infatti innegabile ma, bisogna badare bene, non si deve nemmeno cadere nell’errore di considerare l’esposizione come un reportage giornalistico a tema etnico-folkloristico. Come infatti giustamente nota Michel Frizot, Koudelka della cultura gitana non ci mostra nulla: pur essendo vero che molte foto sono prese durante feste di villaggio o durante particolari avvenimenti come un arresto o un funerale, conclusasi la visione di tutte le foto nessuno che le abbia viste può veramente dire di avere appreso una qualsivoglia consapevolezza maggiore sugli zingari cecoslovacchi. Sappiamo che probabilmente sono cristiani ortodossi, data la presenza di molti crocefissi, immagini sacre, etc., ma nulla più. L‘interesse nel soggetto non riguarda dunque le sue peculiarità intrinseche, ovvero essere testimonianza della cultura gitana, bensì in ciò che l’artista ci mostra (o meglio non ci mostra). Frizot dice che gli zingari appartengono ad un “altrove”, e ritengo che sia questa la giusta chiave di lettura. La popolazione gitana è già di per sé così interessante nella percezione che noi abbiamo di essa, che all’artista non serve contestualizzarla. Tutti abbiamo già una consapevolezza innata nel riconoscere ciò che è diverso, o “altro”, senza bisogno di ulteriori didascalie o spiegazioni. Così Koudelka non ci dice nulla e non ci spiega nulla nelle sue foto, ed è proprio questo che incuriosisce: il mistero, il fascino anche esotico di una popolazione diversa e senza tempo. E’ incredibile infatti come le foto possano essere benissimo state scattate anche ai giorni nostri, ma l’idea che noi avremmo degli zingari sarebbe esattamente a quella che vediamo in questo lavoro ormai vecchio di cinquant’anni: lo zingaro come elemento ai margini della società, che ha caratteristiche opposte a quelle delle persone comuni e perciò, proprio per questo motivo, assolutamente riconoscibile.

Dall’altra parte però a colpirci è anche qualcos’altro, che si afferra solo ad una più attenta osservazione di ogni singola foto. E’ impossibile non notare infatti come tutto, dalle persone ritratte ai fondali, sia assolutamente “perfetto”, ovvero come non ci sia nulla che sia fuori posto: da alcune geometrie nella posizione dei soggetti ai giochi tra il bianco ed il nero c’è una perfezione strutturale tale che pare infatti impossibile che le foto siano state prese d’istinto con una macchina fotografica manuale, fatta cioè per un utilizzo rapido e mobile. Prima di questo lavoro sugli zingari c’è da dire che Koudelka si fece le ossa facendo il fotografo per una compagnia teatrale praghese, e che questo sia stato sicuramente una buona palestra per sviluppare quello che in fotografia è chiamato l’occhio selvaggio (come nota Robert Delpire a proposito proprio del suo amico Koudelka), e dunque un notevole senso estetico per angolazioni, per capire quando la luce è migliore, per aspettare il momento perfetto per lo scatto. I soggetti di Gitani infatti sembrano presi sempre in atteggiamenti particolari, o per meglio dire “significanti”, e immessi in sfondi mai neutri. Che poi anche l’indole della popolazione zingara abbia aiutato a dare un ulteriore spinta verso una accentuata “significazione” è fuori dubbio (basti vedere la foto dei tre ragazzini che mostrano i muscoli, una delle più famose della serie, ma questi atteggiamenti si possono riscontrare in moltissime altre, dove si passa dal patetismo al comportamento smargiasso e comunque non neutrale), ma è anche innegabile che vi sia una composizione che fa pensare allo studio plastico sulle forme più tipico della pittura figurativa.

Probabilmente sarà stata la fusione di tutte queste qualità ad aver impressionato Henri Cartier-Bresson e Elliott Erwitt che, pare vedendo proprio questi scatti, abbiano deciso di far entrare Koudelka nella prestigiosissima agenzia Magnum, anche se l’autore sembrerebbe un elemento abbastanza atipico per lo stile dell’agenzia che da sempre predilige artisti che amano lo scatto più istintivo possibile (quello da reportage per intenderci. Basti ricordare Robert Capa o gli stessi Cartier-Bresson ed Erwitt). Ci si sarebbe aspettati infatti che le foto più calzanti sarebbero quelle fatte da Koudelka durante il sessantotto praghese: ovvero quelle immagini di guerra scattate dall’autore che furono pubblicate in tutto il mondo proprio pochi anni dopo la realizzazione del lavoro sugli zingari. Ma questo mix tra istinto e attenzione alla ricerca formale deve aver colpito i due famosi fotografi esattamente come colpisce noi oggigiorno.

Con queste due mostre, di cui una italiana, l’Europa si mostra ancora attenta alla grande storia della fotografia mondiale, che non può mancare nel bagaglio culturale di qualsiasi appassionato di arti visive.

 

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