Il mondo poetico di Eleonora Danco

Elena Scalia. Per la sezione drammaturgia femminile questo mese abbiamo intervistato Eleonora Danco autrice, regista e attrice.  I suoi spettacoli vengono rappresentati nei circuiti dei maggiori teatri nazionali, tra i vari titoli ricordiamo: “Ragazze al muro”, “Nessuno Ci Guarda”, “Bocconi Amari”, “Me vojo sarva’”, “Ero Purissima”, “Sabbia”, “ Scroscio”, “La Giornata Infinita”, “Intrattenimento Violento”, “Senza titolo 3”. Nel 2009 è  stato  pubblicato per Minimumfax “Ero Purissima” raccolta di una parte dei suoi testi per il teatro. Nel 2012 , il monologo: “Donna numero 4”, scritto su commissione della Triennale di Milano e di EXPO 2015,  è stato inserito  nel volume “Storie di cibo- Racconti di vita” e debutterà in aprile 2013 presso il Teatro Vascello di Roma. I suoi testi sono ispirati a temi come la famiglia del nuovo millennio e la vita della periferia romana con i suoi abitanti. Ciò che rende uniche molte di queste opere è l’uso dello slang romano, che “forte”, autentico e spesso violento, caratterizza la semplicità, l’immediatezza e la poesia  dei personaggi.  La Danco  inoltre ha ideato e dirige  seminari di teatro per la Regione Lazio e la Provincia di Roma e come attrice ha lavorato tra gli altri con: Nanni Moretti,  Michele Placido,  Renato De Maria, Ettore Scola, Marco Bellocchio, Gabriele Muccino, Alessandro di Robbilant, Pupi Avati, Gigi Proietti, Vittorio Gassman e Serena Dandini.

Come è iniziata la tua carriera di donna di teatro?

La mia carriera è frutto di vari processi non è stata immediata, nasco inizialmente come pittrice.  Fin da piccola disegnavo molto, per lo più donne, (con la rapitograph di mio padre che è architetto) ed avevo un mio stile molto particolare. I  miei genitori, avendo notato il mio talento,  hanno pensato bene di farmi esporre i quadri convincendomi che quello sarebbe stato il mio destino.  Presto però ho smesso perché evidentemente non era il mio percorso, infatti già a dodici anni volevo fare l’attrice e l’ho capito dopo aver visto un film con Anna Magnani “Roma Città Aperta” di Rossellini. Ho fatto di tutto per studiare recitazione: mi bocciarono alla maturità e di lì a poco andai a vivere a Roma dove sono stata presa alla Scuola di Proietti. Ho trascorso due anni molto belli e formativi; ho fatto lezione con Ingrid Thulin, Rossella Falk, Ugo Gregoretti, Nanni Loy, Leda Lojodice, Alvaro Piccardi ed anche con Proietti che è un bravissimo insegnante. Una volta uscita dalla scuola ho cominciato a fare l’attrice e ricordo con molta emozione la sostituzione che feci in uno spettacolo di Vittorio Gassman che metteva in scena  “Affabulazione” di Pasolini, tra l’altro io non avevo mai visto un suo spettacolo e all’inizio Gassman mi inibiva molto, ma per fortuna è andato tutto bene. Alla fine di quella esperienza ho capito però che non mi piaceva la vita di “compagnia”: mi intristivano le guerre interne e le rivalità.

Quindi hai smesso di fare teatro?

Sì ho smesso per due anni e durante questo periodo sono andata a vivere a Roma a San Lorenzo e lì,  passeggiando nei vicoli e ascoltando parlare le persone, ho imparato il romano. In questi anni  ho scoperto anche di avere un mondo interiore fortissimo che sentivo di dovere in qualche modo esprimere e allora scrissi il mio primo testo in slang romano “Ragazze al muro” (spero possa essere pubblicato presto).  Lo misi in scena proprio a san Lorenzo e per interpretarlo chiamai una ragazzina che non aveva mai fatto l’attrice e che parlava solo romano, un romano non stereotipato, vero, autentico.  Non sapevo che avrei scritto un testo in dialetto perché venivo da Terracina e solo dopo ho capito, leggendo anche le esperienze di Fellini e Pasolini, che provenendo da un altro mondo avevo colto delle sfumature che probabilmente uno del posto non avrebbe mai notato. In realtà io sono nata a Roma; ci ho vissuto fino all’età di sei anni, poi mio padre che era di Terracina ha voluto trasferirsi lì, ma io non lo ricordo. Rammento solo che  venivo a Roma  a trovare mia nonna e la famiglia di mia madre. L’avvicinamento “seduttivo” con Roma è avvenuto  in modo folgorante però solo quando sono andata a vivere a San Lorenzo (ero giovanissima nei primi anni Novanta). Infatti in quel periodo il quartiere era ancora  senza locali, gli abitanti erano circoscritti, era come un paese, pericoloso e poetico, popolare e  sboccato, con la schiettezza, grezza e unica, dei romani. Era un linguaggio, un suono che è entrato nella mia testa in modo autonomo; in fondo poi le cose si creano vivendo e per un artista quello che conta è quello che esce, per farlo deve “assorbire”, anche a sua insaputa. Ho deciso di usare il romano perché va “al sodo”, ha una sua “arroganza poetica”, è essenziale, mi permette una grande libertà e la possibilità di giocare con le parole.

Forse anche perché il romano è un dialetto che attraverso modi di dire e metafore permette  di lavorare molto con le immagini?

Sì infatti questo è importante perché io mi sono sempre considerata una spettatrice “di coccio” cioè “lenta”: bastano tre parole in più o tre movimenti in più,  pesanti o che sono di troppo, di abbellimento che io già mi sono distratta. Allora l’unico riferimento a cui devo sempre rispondere sono io stessa;  quando lavoro mi pongo sempre come se fossi io lo spettatore, uno spettatore “somaro” , incapace e quindi per far capire devo arrivare al sodo, l’immagine deve arrivare in poco, in modo essenziale, comprensibile.

Il mio intento però non è  mai quello di esplicare concetti,  dare una morale o un messaggio, posso essere solo molto coerente rispetto a quello che sto creando.

E questo forse è già un messaggio.

Si il messaggio diciamo che è la coerenza della mia scelta, assumermi la responsabilità rispetto all’opera cercando di sporcarmi le mani fino in fondo. Poi se decido un tema, una storia, un punto di partenza,  allora lo porto fino in fondo e lotto  fino allo stremo delle forze, fino a che non lo realizzo. To Be Continued…

 

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