Le carré vert

L’opera dell’atleta (a man just doing his job)

Riccardo Giacconi e C. S.

Una partita di calcio dura un’ora e mezza. Con l’intervallo, un’ora e quarantacinque, più o meno la durata standard hollywoodiana, europea, mondiale, fino agli anni Ottanta, di un film.

Enrico Ghezzi, in conversazione con Carmelo Bene[1]

 

Douglas Gordon e Philippe Parreno sono stati abbastanza fortunati. La sera del 23 aprile 2005 hanno posizionato diciassette cineprese sincronizzate per seguire una singola persona per novanta minuti. Quella persona era Zinédine Zidane, celebre calciatore francese che all’epoca giocava per la squadra del Real Madrid. I novanta minuti erano quelli che componevano una partita del campionato spagnolo: Real Madrid contro Villareal. Il luogo era lo stadio Santiago Bernabeu, a Madrid. Zidane, a 21st Century Portrait è il titolo del film, uscito nel 2006, che fu prodotto a partire dalla registrazione di quelle immagini.

 

Sometimes when you arrive in the stadium you feel that everything has already been decided. The script has already been written.

Zinédine Zidane, in Zidane, a 21st Century Portrait

 

È come giocare una partita già preparata, giocata perché provata prima: al ventiquattresimo tu devi mandare in fallo laterale, tu devi segnare all’ottantaduesimo, tu devi essere espulso…[2]

Carmelo Bene, in conversazione con Enrico Ghezzi

 

Douglas Gordon e Philippe Parreno sono stati abbastanza fortunati perché quella partita si è rivelata essere una buona scelta. Zidane, pur avendo toccato palla relativamente poche volte e per pochissimo tempo in totale, ha tracciato i punti di una drammaturgia filmica consistente. Salienti risultano in particolare due momenti, che per la posizione temporale nell’arco del film richiamano, in maniera singolare, due elementi tipici della teoria della sceneggiatura americana: il midpoint e lo showdown[3]. Il primo si dà quando Zidane, dopo aver abilmente dribblato diversi difensori avversari, effettua un magnifico assist che porta il suo compagno di squadra Ronaldo a segnare facilmente un goal. Il secondo, che avviene verso la fine della partita, coincide con il momento in cui il protagonista, per una ragione non chiara, attacca violentemente un avversario a gioco fermo, guadagnandosi l’espulsione anticipata dal match – segnalata dal cartellino rosso – e segnando il relativo unhappy end del lungometraggio. Questa sequenza finale è anticipata, nella colonna sonora, dal crescendo di una sorta di bordone.

You don’t necessarily remember a match as an experience in ‘real time’. My memories of matches are fragmented.

Zinédine Zidane in Zidane, a 21st Century Portrait

Parreno e Gordon utilizzano un linguaggio cinematografico. Il supporto infatti non è il digitale, bensì la pellicola 35mm; le inquadrature non assomigliano alla ripresa sportiva standard, sembrano avere piuttosto a che fare con i primi piani dei classici western; il montaggio tende a produrre uno sviluppo ritmico solidale ad una narrazione; la colonna sonora, infine, comprende composizioni del gruppo rock Mogwai, che contaminano l’atmosfera di intere sequenze con un maestoso rock strumentale. Tuttavia il film – in maniera più palese e più rigorosa che in Le Mans (1971) di Lee H. Katzin – trae la struttura da un evento sportivo, registrato in tempo reale e senza tagli (con l’eccezione rilevante di pochi frammenti – come l’assist per la rete di Ronaldo – che vengono ripresentati successivamente al rallentatore). Gli autori sono intervenuti selezionando le inquadrature da montare, aggiungendo la colonna sonora e alcuni frammenti – inseriti tramite sottotitoli – di un’intervista che avevano fatto a Zidane. Per il resto però, se si esclude la sequenza fra il primo e il secondo tempo (in cui le immagini abbandonano il campo per mostrare alcuni avvenimenti – di rilevanze differenti – che sono accaduti nello stesso lasso di tempo della partita), la post-produzione ha agito all’interno del paradosso di una narrazione cinematografica che non può sciogliersi dall’obbligo del tempo reale, quello di una diretta sportiva, nel quale non si possono effettuare ellissi.

Allo stadio si sta solo per ammirare il giocatore senza palla. Ecco. Perché siccome non viaggia con la palla, non è mai inquadrato.

Carmelo Bene, in conversazione con Enrico Ghezzi[4]

Il paradosso linguistico in cui Parreno e Gordon si situano nasce dall’intento di forgiare un’opera che, al contempo, lavori con un linguaggio palesemente cinematografico eppure abbia con il reale un rapporto uno a uno – rapporto dato dalla presenza del tempo reale nella sua totale integrità, che rende fuori luogo perfino ogni riferimento alle convenzioni documentaristiche (piuttosto, gli autori si riferiscono al Warhol di Sleep (1963) o di Empire (1964)). All’interno di tale sfasatura lavora pure Zinédine Zidane, che porta su di sé le segnature di molteplici livelli. Egli è, sì, protagonista di un film, ma possiamo definirlo attore solamente spingendo al limite tale definizione: è lui stesso, infatti, che definisce in tempo reale la drammaturgia. Egli è al contempo fuori dal film (assumiamo che il suo comportamento sia funzionale alla vittoria della sua squadra più che al fatto di essere ripreso da diciassette telecamere in più del solito) eppure è l’unica forza motrice dello sviluppo del film stesso.

Enrico Ghezzi: C’è qualche sport che non sopporti in televisione?

Carmelo Bene: Ah, sì, io vorrei che si cancellasse tutto il pattinaggio artistico.

EG: Ma perché non è sport, è teatro…

CB: Ma come fanno a chiamarlo “artistico”?

EG: Perché è teatro.

CB: Ma il teatro non è quello. Il teatro non è il teatro, infatti!

EG: .. devo dire che rispetto alla media del nostro teatro, io rivaluto anche un pattinaggio artistico..

CB: Certo, il teatro della rappresentazione.. Almeno nel pattinaggio puoi cadere![5]

Chiamando in causa la terminologia di Carmelo Bene, possiamo tentare di definire l’oggetto del film, vale a dire il tempo trascorso da Zinédine Zidane sul terreno di gioco, sul carré vert. In che posizione si trova Zidane rispetto al proprio comportamento? Bene definisce, nello sport, i momenti di atto (termine contrapposto ad azione) o di immediato, come un “eccedere” lo sport stesso, un andare oltre l’intenzione, un “essere giocati”.

Si può mettere in relazione questa nozione con il concetto di “stordimento” (Benommenheit) teorizzato da Martin Heidegger. Intento a ricercare il luogo della differenza ontologica fra uomo e animale, Heidegger definì lo stordimento come la condizione in cui si troverebbe l’animale alle prese con il proprio ambiente (non mondo: in una celebre definizione, Heidegger definì la pietra “priva di mondo”, l’animale “povero di mondo” e l’uomo “costruttore di mondo”[6]). L’ambiente dell’animale consisterebbe quindi in un universo soggettivo (Umwelt, secondo la terminologia dello zoologo Jakob von Uexküll[7]) composto da determinati stimoli a cui esso è instintivamente obbligato a rispondere (portatori di significato, o disinibitori), senza poter rivelare gli stessi come enti. Una prova di questa relazione istintiva e non-rilevata con i propri disinibitori si ottiene osservando un’ape che succhia il miele da una coppetta: essa continua a farlo anche dopo che le viene tagliato l’addome. Secondo Heidegger, l’ape è completamente dentro il suo disinibitore (il miele), stordita nel mondo, priva di intenzione: essa “è questa relazione, e non vive che in essa e per essa”.[8]

L’uomo, invece, ha creato uno spazio, un aperto fra sé e il mondo: attraverso il logos, il nominare ciò che lo circonda, può sospendere la relazione che lo lega al suo ambiente, che in quanto non più composto solamente di disinibitori, può essere definito mondo. A questo punto si può iniziare a scorgere una similarità fra la nozione heideggeriana di stordimento e quella beniana di atto, o immediato (privo di una mediazione).

Soltanto perché l’animale è nella sua essenza stordito, egli può comportarsi [non agire o avere una condotta]. Lo stordimento è la condizione di possibilità grazie a cui l’animale, secondo la sua essenza, si comporta in un ambiente ma mai in un mondo.[9]

Cos’è l’atto e cos’è l’azione, allora? Secondo la particolare terminologia di Bene, la parola “atto” non ha a che fare con alcuna intenzione, a differenza di “azione”. Nello stordimento heideggeriano, l’animale si comporta, non agisce. L’atto è dunque l’emergere nell’uomo (nell’atleta) di una immediata relazione colla propria Umwelt (non più mondo)? Forse è questo che intende Bene quando parla del calciatore brasiliano Romario che “è capace di una cosa, del quid che poi più conta: l’immediato. […] Dell’atto, non più dell’azione, ma dell’atto”. Romario, come Zidane, in un lampo squarcia il tessuto dell’azione, in quanto “l’atto, di fronte all’azione, è sempre disintenzionato. Non lo sa nemmen lui. È giocato completamente”[10]. È quindi lo sport il luogo predisposto a far saltare il logos, a ridurre il nostro mondo (Welt) in una Umwelt con la quale si può, per un attimo, recuperare una relazione immediata, disumana?

Quando si è nell’atto, si entra nel disumano. Almeno, ci si avvicina al disumano. Queste macchine, appunto, quando sono nel disumano mi lasciano senza fiato. Nell’eccesso dello sport, del gesto atletico, tu puoi vedere al di là della fatica, del facchinaggio.[11]

 Proprio in quanto all’animale è sottratta questa capacità di percepire in quanto qualcosa ciò a cui esso si riferisce, proprio per questo esso può essere assorbito dall’altro in questo modo assoluto.[12]

In Zidane, a 21st Century Portrait abbiamo l’occasione di osservare un giocatore di calcio durante l’intero tessuto temporale di una partita. Il film non si sottrae dall’esibire tutta l’azione, tutto il tessuto del vuoto e del lavoro che l’atto, come un lacerante intervallo o un’eccezione, rompe.

In queste due o tre occasioni possiamo credere di assistere alla non-intenzione, ad uno Zidane “stordito” che non gioca ma è giocato. E sono quei pochi momenti di atto, squarciando il continuum temporale, a dettare il ritmo del film. Lì, Zidane smette di essere attore, è. O, all’opposto, soltanto in quegli attimi smette di essere, sospende la rappresentazione, è attore (agisce) in senso completo. Uno di questi momenti è l’epilogo: l’ira improvvisa e il pugno. Ovvero, con le parole di Montale, “la vita fatta a pezzi, / quella che rompe dal suo insopportabile / ordito”.[13] Zidane sapeva che stavano girando un film su di lui, eppure forse in quell’istante non lo sapeva più. In una intervista a proposito del film, egli stesso disse: “non ho pensato troppo alle telecamere. Quando sei nella partita, te ne dimentichi”[14].

Se abbiamo afferrato bene la definizione di atto, possiamo arrivare a dire che Zidane (e l’atleta in generale) è, allora, l’attore per eccellenza. Ma solo in pochi lampanti momenti. Se cogliamo l’atto come momento lampante di non-consapevolezza, di disumanità, di esser-giocati, di stordimento, di immediato, di eccesso, allora l’attore è Zidane nel momento dell’assist come in quello del pugno. Zidane in quell’istante è completamente attore, in quanto fuori-di-sé.

 

I accepted because I didn’t have to play a role. I just had to be myself doing what I do every Sunday… and that’s it.[15]

Zinédine Zidane

In diversi articoli si è parlato del film su Zidane a partire dal suo ‘essere intento in un lavoro’. Douglas Gordon stesso, introducendo il film durante la fiera d’arte di Basilea, disse che si tratta di un ritratto di “a man just doing his job”. Questa frase richiama l’incipit di El fútbol a sol y sombra, il libro sul calcio dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano: “La historia del fútbol es un triste viaje del placer al deber”.

 


[1] Carmelo Bene e Enrico Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, 1998, p. 5.

[2] Ibid, p. 36

[3] midpoint: una scena importante al centro dello script, spesso un rovescio di fortuna o una rivelazione che cambia la direzione della storia. showdown: il Protagonista si confronta con il “Main Problem” della storia, superandolo o giungendo ad un finale tragico. Syd Field, Screenplay, Dell 1979.

[4] Carmelo Bene e Enrico Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, 1998, p. 27.

[5] Carmelo Bene e Enrico Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, 1998, p. 65.

[6] Martin Heidegger citato in Giorgio Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, 2002, p. 54.

[7] Jakob von Uexküll, “The Theory of Meaning”, in Semiotica 42-1, 1982.

[8] Giorgio Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, 2002, p. 51.

[9] Martin Heidegger citato in Giorgio Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, 2002, p. 55.

[10] Carmelo Bene e Enrico Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), Bompiani, 1998, p. 19.

[11] Ibid, p. 87.

[12] Martin Heidegger citato in Giorgio Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 56-57.

[13] Eugenio Montale, Xenia II in Satura, Mondadori 1971.

[14] Intervista a Zinédine Zidane nei contenuti speciali del DVD Zidane: a 21st Century Portrait, Artificial Eye 2007.

[15] Intervista a Zinédine Zidane nei contenuti speciali del DVD Zidane: a 21st Century Portrait, Artificial Eye 2007.

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