La fuga trova il suo approdo

Giuditta Naselli. In una modesta e disadorna pensione di Bournemouth, stazione balneare inglese sul canale della Manica, sono ospiti fissi: il sig. Fowler, ex preside di scuola media, l’anziana signora Lady Gladys Matheson e l’amica Maude Reilton-Bell, sempre accompagnata dalla timida e instabile figlia Sibyl, Miss Meacham, appassionata di biliardo e cavalli, la coppia di giovani fidanzati Charles e Jean, il maggiore Angus Pollock e lo scrittore americano John Malcolm che, da qualche anno intrattiene un rapporto amoroso segreto con Miss Cooper, titolare della pensione.

Sin dalle prime immagini lo spettatore si chiede perché i personaggi abbiamo scelto, come dimora stabile, una pensione così umile e fuori dal mondo. Si intuisce così che ognuno di loro nasconde un recondito segreto che le mura claustrofobiche dell’albergo sembrano contenere, finché un nuovo personaggio non giunge a destabilizzare l’equilibrio. È Ann Shankland (Rita Hayworth), ex modella ed ex moglie dello scrittore John Malcom (Burt Lancaster), che sconvolge quel gioco silenzioso tra gli ospiti della pensione, quella sequela di tavole separate ma contigue, che durante l’ora dei pasti, celebrano il bisogno, che ogni singolo personaggio ha, di familiarità e appartenenza ad una comunità.

Il regista Delbert Mann, dopo esser approdato alla regia con Marty, vita di un timido (Marty, 1955), che gli vale immediatamente un Oscar, nel corso della sua carriera lavora sia a commedie romantiche ed esilaranti come Amore ritorna! (Lover Come Back, 1961) e Il visone sulla pelle (That Touch of Mink, 1962) che a film più impegnati come Jane Eyre nel castello dei Rochester (Jane Eyre, 1970) e Niente di nuovo sul fronte occidentale (All Quiet on the Western Front, 1979) ma è con Tavole separate (Separate tables, 1958), che, ispirandosi all’omonima pièce di Terence Rattingan, gira uno dei suoi film più complessi e controversi.

Mann racconta, con incredibile sobrietà, come in un albergo, lontano da occhi indiscreti, i personaggi, in fuga da se stessi, da John Malcom, scrittore alcolizzato ancora innamorato dell’ex moglie a Ann Shakland, ex star impaurita dalla solitudine, da Maude Reilton-Bell, anziana madama che cerca di nascondere la fragile figlia Sibyl al maggiore Pollock, inetto in quanto militare e inappropriato in quanto uomo tanto da nascondere l’accusa di presunte molestie sessuali, possano condividere la loro solitudine, legittimati dalla medesima condizione di outsider.

La fuga è un tema ricorrente dell’arte cinematografica statunitense come lo è della cultura americana in genere, in quanto figlia di immigrati europei. Ma la domanda che bisogna porsi è perché l’artista, sin dalla sua democratizzazione, ha scelto gli Stati Uniti, come approdo sicuro? Certo non per, come i più possono addurre, libertà di culto, dato che l’Inghilterra del Settecento era molto più liberale dell’America dei padri pellegrini! Il perché lo spiega molto bene D.H. Lawrence nel saggio Classici Americani: “Che cosa fondarono quando vi giunsero? La chiamereste libertà, quella? Non vi andarono per la libertà, o, se lo fecero, si trassero tristemente indietro. Ma allora, per che cosa vi andarono? Per tante ragioni, delle quali la minore è la libertà, una libertà positiva. Essi vi andarono per il più semplice dei motivi: per sfuggire, allontanarsi. E da che? In ultima analisi per allontanarsi da se stessi, da tutto. Ecco perché sono andati in America, per allontanarsi da tutto ciò che sono e sono stati”.

Lo scrittore D.H. Lawrence, in un saggio che, essendo del 1924, dimostra la sua disarmante modernità, analizza, con estrema lucidità, il vissuto dell’artista americano, dimostrando come la vitalità dell’arte americana sia da imputare alla taciturna ribellione che ogni immigrato cela nei confronti dell’antica tutela dell’Europa. Eppure, nonostante la continua fuga, nessuno si può esimere dal proprio passato. Succede così che la corrosiva e nascosta opposizione americana non fa che corroborare una riverente e ossequiosa obbedienza alla vecchia signora Europa, del quale l’immigrato fatica a liberarsi. Solo con l’ammissione della cupezza e della complessità del proprio io, l’americano potrà definirsi libero e finalmente comprendere se stesso e l’altro.

Così, infatti, accade alla fine del film Tavole separate, in cui, ogni personaggio si dispensa per trasformare l’umile e modesta pensione in una felice e ospitale comunità che, incurante di tabù e pregiudizi, accoglie e redime ogni uomo, anche il maggiore Pollock.

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