Doppia pellicola tra la dolce vita americana e i suoi gangster

di Giuditta Naselli

Anni fa Béla Balàzs valorizzò il potere immenso che l’arte cinematografica ha, rispetto alle altre discipline, di agire in profondità nel sociale, mostrando la complessità del cuore umano. Il cinema, spirito delle masse, si connota per la sua essenza popolare, per la moderna capacità di raccontare il presente, analizzando i conflitti dialettici dell’uomo. Il pluripremiato regista Clint Eastwood, cosciente delle potenzialità della macchina da presa, sfrutta la sua fluida narratività, portando sullo schermo la storia di J.Edgar Hoover, un uomo oscuro e controverso, che contribuì, più di tanti altri, a scrivere la storia della politica americana.

Poco più che ventenne Hoover prende le redini dell’FBI, allora un ente investigativo di poco rilievo, e, organizzando l’addestramento di agenti e la formazione di laboratori scientifici, fondati sull’innovativo uso delle impronte digitali, edifica ciò che oggi è il braccio destro del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America. Nell’arco di 50 anni, attraverso tre guerre e otto presidenti, Hoover diviene uno degli uomini più potenti e ambigui della storia americana. Combatte la criminalità, eliminando gangster del calibro di John Dillinger, ma diviene responsabile di numerose azioni, fatte di ricatti e di fascicoli segreti, che lambiscono l’illegalità. Contrario ai valori liberali della comunità afro-americana e riluttante all’omosessualità, il presidente dell’FBI cela, per tutta la vita, una relazione con il suo vice Clyde Tolson, tanto da lasciargli il  patrimonio alla morte e da condividere l’eternità con una tumulazione, fianco al fianco, nel cimitero del Parlamento americano.

Con J.Edgar, l’ottantunenne Eastwood affida a Leonardo di Caprio un ruolo di spessore, in un film che, sulla linea tra passato e presente, congiunge vizi e virtù di una terra, che, come ha mostrato il grande Raoul Walsh, nel lontano 1939, ne I ruggenti anni Venti (The Roaring Twenties), è stata edificata con atti di violenza ed illegalità. Il film di Walsh narrava infatti  la storia dell’uomo medio americano, Eddie Bartlett (James Cagney), un eroe di guerra, che durante il periodo del proibizionismo è costretto, per indigenza, a trasformarsi in un contrabbandiere di alcolici. Sullo sfondo di una narrazione “da cinegiornale” il regista eleva la figura del gangster a caricatura del sogno americano, dipingendo il protagonista come un eroe moderno, vittima di un ambiente ostile, che lo condurrà alla morte in un’inquadratura che, per la drammaticità iconografica, sembra citare La Pietà di Michelangelo.

Un aneddoto divertente racconta che, durante la preparazione del film, J.Edgar Hoover, telefonò alla star James Cagney e gli disse: “Se fai il delinquente, ricordati che alla fine del film devi morire. Non ammetto che i cattivi restino vivi”. Anche l’integerrimo capo dell’FBI si dimostra conscio delle doti ammalianti del grande schermo e delle capacità che esso ha di svelare le antinomie della società. D’altronde il cinema rispecchia pienamente uno degli assiomi di Hoover (“Una società che non impara dal passato, non ha futuro”), tanto che I Ruggenti anni Venti rappresenta l’ultimo grande gangster, in quanto, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i fuorilegge spariscono dalle pellicole lasciando il posto a uomini d’affari e le organizzazioni criminali si dissolvono a favore di aziende e grandi imprese.

Walsh e Eastwood possiedono un modo di girare che può essere comparato per l’assenza di finalità pedagogiche in film che emergono per la disarmante ricostruzione della verità. Il loro unico scopo è la realizzazione di un racconto filmico asciutto, lineare, perentorio, che non si abbandoni a valzer emozionali e a prediche sterili, stimolando l’intelletto dello spettatore ed interrando in esso un seme produttivo, quello del dubbio.

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