Chiharu Shiota

Paola Pluchino. Una fragile percezione della contemporaneità presupporrebbe una materia non in grado di evocare direttamente, incapace di fondersi idealmente con l’oggetto che rappresenta. Come per mitosi, le assenze e le falle del ragionamento si moltiplicherebbero creando lacune nel processo espressivo, dalla germinazione dell’idea alla sua resa. Chiaru Shiota, artista nata a Osaka nel 1972 e oggi residente a Berlino, occupa lo spazio con fare delicato e mnemonico, usando il filo come percorso del pensiero, come costruzione in rima con i processi della memoria: un lavoro sulla trama del tempo. Le sue opere sono gabbie, trame fitte e inestricabili, piante infestanti che agiscono sull’oggetto, lo invadono, lo trasfigurano, rimembrando il passaggio umano appena trascorso. “Gli oggetti conservano nella materia la loro essenza vitale” afferma l’artista, e, difatti, la loro linfa si esprime contestualmente al guardare,  lungo un labirintico percorso che giunge fino alla Zoe di Jensen.

Oggetti appesi, come spiriti disegnati, bloccano l’interazione con la forma chiudendo a una possibile percezione della loro stessa  fisicità, e non rappresentano se stessi, ma nel gioco ordito della memoria, trascendono il loro ruolo ponendosi come segno traccia, come ideale aleatorio e pesante del sono stato. Nel gioco di Shiota, memoria e legamento sono pezzi ulteriori del costrutto del tempus fugit,  sono “ricordo a rete” delle infinite variazioni dell’uomo e delle sue relazioni: sono mani che si legano ad altre mani, sono  potere del tempo che edifica e sedimenta, sono occhi che permettono la visione dell’altro e dell’altrove, sono vuoti che ricordano ed evocano la presenza dell’invisibile essenziale.

La meta opera di Shiota agisce sul discorso mostrandosi per sineddoche, come la costruzione del pensiero nell’agire delle sinapsi o come l’affermarsi dei teoremi matematici sui multiversi. L’artista gioca sulla soglia di materia e memoria, e riflettendo sui processi  di trasformazione del pensiero in ricordo, imbastisce un discorso in cui l’esperienza sembra scomparire: a rimanere, solo il lontano dei monoliti ormai invasi dal tempo.

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