Alla conquista di John Ford

Giuditta Naselli. In tempi controversi come i nostri è difficile pensare ad un tipo di cinema che esalti i valori e le aspettative di un’intera nazione e d’altronde il popolo italiano non ha mai corroborato la sua essenza in ideali patriottici.

Diversa è la situazione dall’altra parte del mondo, in cui vive un paese che del nazionalismo ha fatto la sua più prospera bandiera influenzando anche ambiti lontani, come quello cinematografico e artistico in genere.

Il western, più degli altri generi cinematografici,  ha raccontato la storia degli Stati Uniti d’America, mettendo in scena l’appassionata e tragica conquista del West. Un popolo, imprigionato in una duplice identità di invasore e pellegrino, ha trovato le sue radici tramandando l’epopea di uomini e donne che, su selvaggi puledri e cigolanti carri, hanno combattuto per una fetta d’America.

Colui che, più di qualunque altro regista, ha elevato il genere, conferendogli l’ampio e mistico respiro della Monument Valley e consacrandogli una profondità quasi spirituale, è stato John Ford. Figlio di immigrati irlandesi ha avuto il coraggio di narrare la storia di un paese che si è costruito attraverso le azioni della piccola gente.

I film di Ford, ad un occhio immaturo, appaiono semplici, ingenui, privi di ricercatezza formale ma sono, invece, permeati da un fascino misterioso dal sapore antico, che restituisce ai valori l’adeguata consistenza. La nobiltà d’animo, l’onestà, il senso del dovere e il rispetto per i defunti sono le qualità di protagonisti che rivestono il ruolo di pionieri che, nel nome della libertà, hanno conquistato una terra di frontiera. Ogni inquadratura custodisce un iridescente ventaglio di significati nascosti e di misteri insoluti che sottintendono la mancata risoluzione dei conflitti umani. Ford, con i suoi film, non racconta solo la storia del popolo americano ma l’epica odissea di ogni uomo. Col berretto da baseball, le scarpe da ginnastica e la sua immancabile pipa rifugge ostinatamente da qualsiasi definizione artistica, dimostrando come l’arte risieda, prima di tutto, nell’umiltà dell’essere artista. Alcune inquadrature dei suoi film alludono a quadri del pittore realista, dei primi del Novecento, Winslow Homer: la scena in cui il capitano Brittles (JohnWayne) ai piedi della tomba della moglie in I cavalieri del Nord-Ovest (She Wore a Yellow Ribbon, 1949) rimanda a Soldier mediating on a grave (1865) o la prima apparizione di Kate Danaher (Maureen O’Hara)  in  Un uomo tranquillo (The Quiet man, 1952) richiama Fresh Air (1878). Sembra così che il regista e il pittore, consapevolmente o meno, abbiano condiviso, con le loro opere, quel procace vitalismo, che come decantava il poeta Walt Whitman, è stata la prerogativa per cui l’uomo americano si è distinto.

John Ford ha girato film per più di quarant’anni scontrandosi con il cambiamento dei tempi e dei bisogni degli americani. Il dopoguerra, infatti, non mantiene le sue promesse e la gioventù americana si dimostra irrequieta e selvaggia. Marlon Brando e James Dean sostituiscono i vecchi idoli e una nuova Hollywood, fatta di piccole produzioni indipendenti, definisce il tramonto della vecchia guardia. La dissoluzione dell’antico Olimpo hollywoodiano trascina con sé quegli dei che, per decenni, avevano incantato gli occhi e i cuori di milioni di spettatori. Ed è proprio in questo difficile momento che Ford gira il film più epocale della sua vita: Sentieri Selvaggi (The Searchers, 1956). Con la storia di Ethan (John Wayne) che, insieme alla sua nipote, rapita dagli indiani, cerca ciò che è rimasto della sua famiglia e di se stesso il regista racconta il drammatico conflitto psicologico tra l’uomo nuovo che pretende esistenza e quello vecchio che stenta a scomparire. Il personaggio di John Wayne presenta diverse contraddizioni: ha combattuto per anni per i sudisti ed è stato sconfitto, ha vagato per anni al servizio di cause inutili o al limite della legge, è senza famiglia e segretamente innamorato della moglie del fratello. Sconfitto, frustato, prigioniero di pregiudizi e intolleranza il cavaliere negativo, dal cuore nobile, alla fine del film, trova riscatto. Nonostante ciò la sua ricerca non si esaurisce e rimane eternamente costretto alla latitanza emotiva e all’abbandono della speranza di un’identità familiare. Ford con Sentieri selvaggi analizza, così, lucidamente la storia universale dell’essere umano costretto all’erranza e alla ricerca di qualcosa che sembra aver perduto per sempre.

 

 

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