Alessandro Verdi

Hypocrite lecteur/

mon semblable, mon frère

Nell’eterna pantomima che sottende la composizione delle forme, figlia di un tempo in cui sembrano coesistere tutte le espressioni possibili del dire, dove il tutto e il niente paiono  presentarsi sulla stessa caotica ribalta, Verdi ammalia lo spettatore, toccando il recto e il verso che congiunge la parola all’arte. Al classicismo del metodo pittorico si lega qui un’abilità arcana, un favorevole toccare – per – esserci, in cui lo sprofondare bergsoniano ritrova il bilancio della sua passione attraverso la grande lezione baconiana.

Al flatus vocis della contemporaneità, Verdi affida l’immagine intima e pulsionale, gioco in cui il fluire e la trascendenza di materia e memoria, paiono dialogare in un tessuto tattile, che allo sfiorare della mano destano l’energheia latente nell’opera.

Pago di sospiri e di rimembranze, i suoi libri evocano immagini immote e strutture lignee. Come gli antichi scritti benedettini anch’esso è schiavo della mano, cui cede il fare coscienziale delle tenebre in favore di luminosità a carte rugose, abbagliando i risvolti, pagina a pagina, dei suoi racconti.

Un processo che tuttavia non esaurisce lo stigma di un artista che vota se stesso a una bidimensionalità solo apparente, che nasconde, tra le traiettorie ideali del sentimento, una profondità di spirito che supera i confini e della materia e dei colori. Nel diktat imperante della tela come movimento incurvato verso un passato ormai zoppicante, Verdi risponde con maestria, la stessa che Testori vide in lui e su cui i galleristi ancor oggi scommettono.

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