Claire Fontaine: sans dout par antiphrase

Destabilizzano, provocano, dileggiano l’autorità e l’immobilità di alcuni sistemi sociali che sottendono al mantenimento dello statu quo: sono pirati che delle arti hanno fatto il loro credo e il loro mezzo di sovversione: a Bolzano, con una mostra dal titolo M-A-C-C-H-I-N-A-Z-I-O-N-I, si presenta il collettivo Claire Fontaine, gruppo di artisti italo britannico – ma operante a Parigi- nato nel 2004 che trova la propria ragion d’essere sulla contestazione politica e sulla derisione dei meccanismi di potere precostituiti.

Claire Fontaine è il  nome di una nota marca di quaderni e, si legge tra gli stralci di un’intervista[1] anche la scelta del nome ha una sua ragione fondante: “Essere donna ed essere autoctona nel mondo dell’arte può essere un handicap e ci sembrava interessante partire da questa situazione”.

Nella città trentina il collettivo invade -letteralmente- gli ampi spazi delle sale espositive con opere note e alcune novità: tra queste tre macchine, tre marchingegni, escamotage logico per celare il duplice e mal velato senso che da il titolo alla mostra, il moto perpetuo di Leman Brothers che suggerisce l’alimentarsi del debito da parte a parte nel procedere patologico dell’errore, e ancora, un’Italia ricostruita con migliaia di fiammiferi, simbolo di precarietà e di un drammatico annebbiamento, i dialoghi con i cuscini di Carl Andre (già presenti in una precedente mostra dal titolo “Floar piecies”) che qui diventano tappeti da combattimento in uno sperimentale gioco sul contemporaneo e infine la provocazione sulla parola “stranieri ovunque” che si legge all’ingresso, come “lavoro”, “potere”, “capitalismo”, con quell’arbeit (macht, kapital) tanto amaro in bella posta.

Il fare guerresco dei Claire Fontaine, fa subito presa per l’immediatezza e la coerenza con cui si muove, con l’intento di scardinare la regola dello stato sociale e influendo attivamente nel contesto in cui operano. Ma a ben vedere il collettivo risulta essere “il più addomesticato” nel suo normalizzarsi all’interno di strutture museali istituzionali. Nonostante voci critiche, questo adeguamento pare un limite, l’accettazione di uno scambio, una reciproca ospitalità di spazi e di contenuti, dove partecipare ad un quodlibet ma senza esporsi a un dibattito.

I Claire Fontaine si distaccano da gruppi atipici come gli Yes Men, i più temuti dalle banche dati del governo americano o dai responsabili ai sistemi di sicurezza nazionale, nonché fautori di truffe milionarie, o Luther Blisset, collettivo di matrice bolognese nato tra gli anni Ottanta e Novanta, che, studiando i meccanismi di manipolazione dell’informazione ha escogitato negli anni della sua attività una serie di opere aperte, provocando anche episodi di isterismo collettivo o ancora i russi del collettivo Voina, forse il più irriverente di tutti, che si muove nel verso di una dichiarata contestazione al governo reggente, al confine tra la dissidenza e l’arte.

L’utopia spesso tacciata di inapplicabilità, trova forse all’oggi un giusto terreno per muoversi, avendo la società trasformato la terra tutta in un non luogo. Stranieri Ovunque.

Pur apparendo a tratti priva di efficacia, M-A-C-C-H-I-N-A-Z-O-N-I riesce ad avere una sua forza, incuneandosi in un contesto, come quello altoatesino, che fonda sulla multiculturalità e sul plurilinguismo la sua tradizione. Tuttavia, pur lodando l’impresa, questa volta i Claire Fontaine non convincono completamente, non riuscendo a sviluppare coerentemente una direzione precisa nel rivelarsi. Forse del testo di Gilles Deleuze, Differenza e Ripetizione non rimane veramente altro che l’involucro.



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