DIVAGAZIONI PNEUMATICHE

Arte e scienza dal Settecento all’ Età contemporanea

Federica Melis. L’Aria, forma musicale che ha animato l’opera nel Settecento, possiede una storia che oggi potremmo definire multidisciplinare. Tale storia, se osservata con uno sguardo grandangolare, consente non più di isolare singolarmente le sfere del sapere ma, avversando le più agguerrite metodologie conservatrici, di accordare le loro parti in contrasto, nel tentativo di attenuare  il giudizio di obsolescenza che le Arie musicali mantengono nella contemporaneità. Già nel Settecento si registrava una notevole difficoltà nel dare una definizione univoca di Aria: il musicologo Roger North, autore di The Musicall Grammarian, affermava che il termine utilizzato nel lessico musicale era il medesimo per tutte quelle disposizioni inesprimibili verbalmente, come, ad esempio, l’aria del volto di una persona. Tale difficoltà risiedeva nella stretta vicinanza della musica con le dottrine mediche, fisiche e perfino teologiche, rendendo impossibile pensare aria, canto e vita come elementi separati; un legame inscindibile che mosse il filosofo naturale Robert Boyle a “riflettere con gratitudine sulla saggezza e bontà del creatore, il quale dando all’aria una sua elasticità, ha reso difficilissima all’uomo l’eliminazione d’una cosa tanto necessaria agli esseri viventi”.

Così l’aria, come fluido elastico, entrò a far parte delle definizioni dei musicologi: la sostanza compressa, pesata e misurata in laboratorio, era la stessa che animava il canto delle passioni umane. Il meticciato lessicale attuatosi in ambito musicale nel Settecento, ricorda l’importanza di trattare le separazioni disciplinari non come impenetrabili barriere cementificate, piuttosto come sottili strati membranosi che garantiscono il passaggio osmotico di elementi eterogenei. Prassi questa che l’età contemporanea non disdegna affatto e che addirittura pare esserle, in virtù della sua nota complessità, quella più funzionale. Gli esempi dei  rapporti fra l’ambito artistico e quello scientifico certo non mancano; gli affondi dell’arte in campo medico sono innumerevoli e, per quanto possa risultare singolare, anche la ricerca scientifica quando posta di fronte al dato incalcolabile, abbandona i sentieri delle certezze avanzando nuove ipotesi sorrette da modelli affini alle “utopie” artistiche. Per fare un esempio, fino a qualche decennio fa, gli studi sugli acidi nucleici non trovavano validi motivi che giustificassero la presenza di ampie porzioni di DNA apparentemente non codificanti. “Al livello del DNA non è scritta solo l’informazione genetica- sosteneva l’immunologo Claudio Franceschi – ma anche tutta la storia evolutiva della nostra specie, che essendo stata invasa da virus di ogni genere non può essere esente da una contaminazione fra una specie e l’altra. Dunque il modello darwiniano rappresentato da un albero i cui rami, perfettamente ordinati e allineati, conducevano l’evoluzione della specie in senso verticale, è stato sostituito con un nuovo albero, stavolta però dotato di una estrema flessibilità, rappresentativo della nuova evoluzione orizzontale. Le legnose rigidità dei rami appartenenti al regno vegetale sono divenute le contorsioni, gli accavallamenti e le intersezioni di vermi piatti (planarie) volti a comporre il nuovo arbusto dalla chioma scapigliata; una sorta di ibrido frankensteiniano a metà fra il regno vegetale e quello animale”. Così come quei filoni artistici caratterizzati dal prefisso neo, anche la scienza contemporanea nella formulazione del suo Neo-evoluzionismo ha dato uno sguardo ai modelli del passato e traslandone, rielaborati, alcuni elementi nel presente, ha creato nuove ipotesi per il futuro, dove le nuances fantastiche, almeno a livello d’immagine, traspaiono visibilmente.

In una sorta trittico evolutivo è utile porre l’accento sul progetto Babel del 2010 dell’artista Corrado Zeni: l’indagine scientifica sui rapporti fra una specie e l’altra si trasforma in una ricerca sociale dei rapporti fra individuo e individuo della medesima specie; il concetto di incomunicabilità umana, dato da apparenti differenze linguistiche e culturali, nella traduzione artisco-formale di Zeni diventa un complesso albero bidimensionale, che sceglie come parti costitutive proprio l’oggetto della sua analisi: l’uomo.

E l’uomo, nella propria interiorità, era anche l’oggetto della rappresentazione estetico-musicale del Settecento. Con sguardo anatomico il filosofo indagava la mente e l’animo umano e, di fianco a lui, il musicista metteva in scena questa ritrovata interiorità. Le Arie, attraverso la ripetizione costante di uno stesso pensiero, attraverso la variazione continua del medesimo tema, con circa  la stessa combinazione di suoni, svolgevano il compito di rappresentare la potenza reiterata delle passioni: stati d’animo tanto coercitivi da imporsi, da stabilirsi, da installarsi e ripetersi fino all’ossessione. Tale asfissiante presenza, secondo Cartesio, non era da considerarsi uno svantaggio, poiché la mente avrebbe avuto in tal modo la possibilità di riconoscere gli spiriti ribelli e di imprimere su di loro la ragione. In una certa maniera la mente addomestica gli spiriti al fine di educare sé stessa. L’idea cartesiana che nel secolo dei lumi ottenne un considerevole successo, prende forma e si concretizza  attraverso l’opera, che a sua volta ne esalta e ne attualizza la valenza psicologica e sociale. Le passioni, i turbamenti psichici ed emotivi e la possibilità di vederli rappresentati attraverso l’azione scenico-musicale, oggi come ieri, conducono lo spettatore alla catarsi omeopatica: solo attraverso la conoscenza di tali turbamenti nell’altro, ognuno potrà riconoscerli in sé, comprenderne il senso e con l’ausilio delle arie, fissarne il ricordo. Se è vero che la musica è per eccellenza l’arte del tempo, nella nostra società, il maggiore assillo è proprio quello di non avere più del tempo a disposizione: l’importanza e l’utilità dell’opera nella frenesia dettata dai Mercuri alati del XXI secolo, non è quella di far fronte alle archeologiche e oscure esigenze dei cosiddetti melomani blasés, bensì quella di configurarsi come luogo del tempo ritrovato, dove chiunque  può sopperire al bisogno di ritrovarsi e di rivedersi col cuore.

STRILLO DA TOGLIERE NEL TESTO

Chi trepido non s’è seduto di fronte al sipario del cuore? Alla fine s’aprì; e di scena era l’addio”

RAINER MARIA RILKE

Elegie Duinesi (IV)

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