Postmodernismo come resistenza

Paola Pluchino. Un giusto incipit è quello che Cristiana Collu, nuovo direttore del Mart di Rovereto, escogita alla sua prima prova.

Accanto alla quotata Alice in Wonderland, che per la prima volta apre all’indagine delle influenze dell’omonimo romanzo di Lewis Carroll sulle arti visive, si pone la Post modernismo, Stile e Sovversione 1970-1990, organizzata dal Victoria and Albert Museum di Londra.

Se per la prima, il filo conduttore è intessuto nell’assunto del risvegliare la meraviglia, pur affiancando al gioco della fantasia la storicità del tema proposto, quella sul post modernismo rispecchia e rivela una luce di ricerca che lentamente avanza, ponendo nuovi interrogativi sull’interpretazione del gusto contemporaneo oltre che una semplice domanda sull’allargamento del confine delle arti.

Una mostra che fonda le sue solide radici sul design e l’architettura, sul fulcro del presentarsi bene, in luogo dell’esporre semplicemente la propria teoria.

Così, avanza perturbante la scelta di porre, sembra tra le righe, uno stuolo di pensatori di marca frommiana prima e grunge poi, intervenendo sul perno dell’incatenarsi al colore e alla forma. Le opere presentate (circa 200), in cui spicca un Jeff Koons onnipresente (anche a Parigi e ad aprile a Venezia), si strutturano dialogando con la musica dei New Order e con l’espressività del regista Jarman (cui si deve tra l’altro, una raffinata prova sulla vita e il pensiero del linguista viennese -dagli studi britannici – Ludwig Wittgenstein).

Il senso dell’arte è arbitrario e si produce in relazione al contesto d’uso. Dai manuali di storia dell’arte, passando per quelli di linguistica di matrice recente, colui che inventa viola sistematicamente dalle regole imposte, sfruttando le falle del ragionamento iniziale, innestando un proprio regime, arbitrario appunto in cui forma e sostanza si conciliano nella dialettica di senso e significato su cui fondano la loro esistenza.

Il piacere che scaturisce dal vedere queste opere non sta tanto nel loro statuto di arte, quanto nell’uso semantico che esse fanno del contenitore in cui sono poste. Un contenitore che permette l’influenza reciproca di grandi opere con piccoli capolavori, piccoli disegni e performance, in un dialogo tutt’ora in corso sulla ridefinizione del fuori cornice, e fuori target artistico[1].

Molte opere trascendono dall’intenzionalità del loro essere arte, ovvero, trascendono dalla volontà di essere creati come oggetti d’arte. Una rivoluzione invertita, una resistenza che destina ad un oggetto d’uso una funzione da esposizione e contemplativa, fuori dal gioco ironico del détournement duchampiano.

Oltre la nozione di un’estetica negativa di matrice adorniana allora, l’intendersi di stile e sovversione è piuttosto un accettare un sistema totale in cui gusto e fine si conciliano in conveniente conversare, dove l’abile indica al bello la direzione.

Usare da qualche parte

Gli architetti traggono spesso ispirazione dall’arte contemporanea, non solo dalla sua presenza tattile, fisica e dal trattamento fantasioso dei materiali, ma anche dall’investigazione analitica che opera sulla società.
(dalla prefazione di Cristina Bechtler)



[1] E in questo simile all’Antiestetica di Hal Foster (edito da Postmendiabooks, Milano, 2012) laddove sostiene che : “Con il suo modello testuale, la strategia postmoderna diventa chiara: decostruire il modernismo non per sigillarlo nella sua stessa immagine, ma per aprirlo, riscriverlo, per schiudere i suoi sistemi chiusi (come il museo) all'”eterogeneità dei testi” (Crimp), per riscrivere le sue tecniche universali in termini di “contraddizioni sintetiche” (Frampton); in breve, per confrontare le sue narrative dominanti con il “discorso degli altri” (Owens).

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