The Abramovic Method

Appunti per una consultazione umana

Paola Pluchino. Il suono interiore di Marina Abramovic si ascolta a Milano dal 21 marzo al PAC di Milano con The Abramovic Method, poi dal 22 presso il cinema Apollo dove sarà trasmesso in anteprima il film Marina Abramovic “The artist is Present” e, fino al 5 maggio, alla galleria Lia Rumma nella mostra With Eyes Closed i See Happiness.

Un triplo appuntamento per ripercorrere insieme il cammino di una della più grandi sostenitrici della Body Art, quell’arte del fare arte con il corpo che, fin dalle prime apparizioni con il compagno Ulay, giunge qui modificata di senso:“ An artist should not repeat himself” e – An artist should look deep inside themselves for inspiration”[1] .

Al PAC di Milano, l’artista coinvolgerà pubblico e spettatori in una performance collettiva della durata di 90 minuti dove ognuno potrà scegliere se essere dalla parte dell’osservatore o del partecipante. Nessuna violenza questa volta, nessuno spargimento di sangue, nessuna biblica confessione del corpo ma un’indagine sugli spostamenti della percezione, sul movimento del corpo che ottenebrandosi riesce depurato grazie al metodo Abramovic; cuffie per un raccoglimento interiore che invaderà ogni singolo partecipante all’evento perché, come la stessa Abramovic sostiene, “la performance ha motivo di esistere solo in rapporto agli spettatori, in un certo senso queste due anime sono inseparabili”.

Terrorista[2] dell’arte, archetipo dello sconfinamento, l’artista spinge nel verso di una dedizione illimitata al disgusto, al mostruoso, a ciò che l’uomo vorrebbe celare, dimenticando  l’origine primigenia della stessa democrazia e la sua stessa essenza. La depurazione che il filtro d’arte permette in un’analisi estetica delle opere, porta con sé l’assunto di greca memoria in cui la tragedia sigilla ed esprime la condizione umana nella complessità dei suoi fenomeni, adempiendo a un fine che è conoscitivo, etico ed estetico a un tempo.[3]

In perfetta sintonia con lo spirito dell’arte, la grandezza dell’Abramovic si palesa nel suo rapporto  con gli spettatori che agiscono sempre per reazione e non per emulazione, provocandone sentimenti di pena, compassione ed esorcismo del dolore.

The Abramovic Method segna quindi  una svolta nel pensiero collettivo dell’artista – performer, un superamento della violenza che non è però la sua sospensione, quanto l’apparizione sine tempo della legge[4].

Emancipata da vincoli esistenziali, estrema narratrice del riappropriamento corporeo, questa  donna, gentile nell’aspetto e rovente nell’occhio, decide adesso per un atteggiamento che pare porsi tra la meditazione orientale e il surrealismo sibillino. Lo sguardo si rivolge così alla costellazione dell’individuo, agendo sulla linea che porta l’espressione -il movimento e il corpo tutto- a trasformarsi in energia: è l’espansione della percezione attraverso canali inusuali e remoti, che trascende e purifica l’occhio.

Performer estrema, graffiante provocatrice, la sua anima indistinta e abile nel prestarsi al gioco molto pericoloso dell’arte, l’ha spesso ricondotta all’etichetta di folle ossessa e masochista, invasata e inutile malata. Chi invece ha cercato e ha provato a scardinare il velo profondo che sottende tutto il suo percorso artistico, ha scoperto in lei l’anima fragile dell’allegoria, il vero e forte nodo centrale dell’arte. Rivelarsi per dire io esisto e così sono.

Di nietzschiana memoria, ha scavalcato sistemi e sovrastrutture dell’arte costituita, rendendo il suo corpo sintesi di suggestioni estreme che prestano il fianco all’espressione audace della complessità della provocazione: allarga la percezione e il comune sentire a regioni che spesso, per tabù o per morale, lasciamo chiuse in un angolo austero del nostro essere umani.

Trascendendo il comune sentire, la Abramovic è riuscita a giocare e vincere il dolore; la carne, si è fatta così schiava della mente, facendo riecheggiare l’inversione hegeliana del binomio servo – padrone.

Non depurata, ma sicuramente ridotta, appare adesso Marina Abramovic che, mutata nella forma ma non nella sostanza, provoca in questa nuova performance l’azione del pubblico. L’arte è il faro che traccia la rotta che impone un metodo di conversione delle anime e dei corpi, fuori dalle logiche della paura e del principio del pavido “non tentare” di farsi materia dell’arte.

Giudicare da alti seggi, come illuminati voyeur, non è compito di chi vuol guardare le stelle. I telescopi, rivolti all’azione del qui e ora, soccorrono lo spettatore nella caoticità del movimento e dei corpi vivi. Dove il macro e il micro si incontrano, dove il potente serve e osserva il minimo e l’impercettibile fluire del tempo, l’occhio si presta al contiguo, nella certezza che solo abbassandosi alla percezione del  reale possa imporsi il giusto paragone con il trascendente.

La spiritualità, l’energia e la dilatazione della sfera sensoriale, sono per la Abramovic nodi focali della ricerca che l’hanno portata da Bologna -con Ulay- fino al PAC di Milano. L’oltre corpo, così come l’oltre uomo, il post modernismo, rivelano e addizionano nella sintesi della performance, lo slancio ancora vivo e progressista dell’andare al di là, imponendo un metodo, una regola, che indica e suggerisce, senza imposizioni e imbastiture coatte.

Quando il piccolo si eleva e il grande si distende l’equilibrio che si produce muove i corpi in successione, provoca armonicamente intrecciando il successo al disagio, il molteplice all’uno: nella performance l’entusiasmo si trasforma in energia collettiva, producendo un moto invisibile di misticismo.

A giocare col fuoco è facile bruciarsi, se l’azione non è definita da coordinate implicite e tra loro accordate. Oltre san Lorenzo sulla graticola, oltre alla purificazione monacale della frusta, nel confine che l’azione opera al corpo e in ascesi allo spirito, il dettame del video gioca coordinando il  pungolo che sta tra anatemi e trattati[5]  d’innesco.

Nell’operare della Abramovic questa volta non c’è violenza, o forse è solo la quiete prima della tempesta.

Evoluzione della performance newyorkese al MOMA nel 2010 The Artist is Present (prova di resistenza fisica in cui per sette ore ogni giorno l’artista seduta ha incrociato lo sguardo di migliaia di  visitatori), oltre che di House With the Ocean View e Seven Easy Pieces,  la Abromovic si dissesta e in trono sentenzia l’ascesa di un’energia congiunta che si accumula in minerali preziosi, così come gli uomini, novelli portatori e contenitori di energie. Nella catarsi del pensiero collettivo i minerali servono qui da connettori di energia, dialogando nella loro anima immota  e arcana con il pubblico e gli spettatori presenti. In novanta minuti si impartirà il metodo Abramovic, la riscoperta di un paradosso antico e ancora attuale che vede la nuova danza dell’arte esprimersi secondo i labirinti antichi della mente.



[1] Marina Abramović , The artist’s life Manifesto, punti 7 e 13.

 Crf. http://grandevetro.blogspot.com/2010/09/marina-abramovic-artists-life-manifesto.html

[2] Il Terrorista è misologo, e, nella goccia d’acqua che resta sulla punta delle sue dita, non riconosce più il mare in cui credeva di essersi immerso. In Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata, 2005

[3] Perte Szondi – Sergio Givone – Gianluca Garelli, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino, 1999.

[4]  Gustavo Zagrebelsky su Habermas: “la legge non è violenza”

Cfr. http://www.unica.it/pub/print.jsp?id=6296&iso=22&is=7

[5] “L’uomo è un piccolo mondo (minor mundus) che riflette il grande mondo (maior mundus) , ma grazie al suo intelletto, il saggio – il mago – può innalzarsi al di sopra dei sette  cieli”. In Picatrix. Ghayat al-hakim, «Il fine del saggio» dello pseudo Maslama al-Magriti, Mimesis edizioni, Milano 1999, p. 13.

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