Au revoir docteur Jekill

Di Alessandro Cochetti

Il 10 Marzo 2012, qualche mese fa, è scomparso probabilmente uno dei più grandi autori di fumetti a livello mondiale: Jean Giraud “Moebius”. Non si vogliono qui ripercorrere le storie della sua vita privata e artistica, sulle quali molto è già stato scritto[1] e su cui l’autore stesso si è espresso esaustivamente[2]. E non si vuole nemmeno fare una, tardiva, beatificazione post-mortem. Questo vuole soltanto essere un omaggio ad un autore che col suo lavoro, dalla fine degli anni Sessanta (e fino alla fine della sua vita), ha cambiato il volto di quella che viene considerata oggi (grazie anche al suo lavoro) la nona arte.

È impossibile, nonché inutile, fissare con delle date il suo lavoro per cercare un punto (o più d’uno) che sia focale ed imprescindibile attraverso il quale poter comprendere in profondità il suo lascito. D’altronde lo stesso autore dichiarava che:

‹‹La data è l’imprecisione del ricordo. Si mettono le date per mettersi a posto la coscienza. E’ come sottolineare a matita una riga per non rileggerla. Come infilzare con uno spillo una farfalla in una scatola, nel tentativo di dimenticare che ancora poco fa i suoi colori baluginavano percorrendo l’aria fresca dei prati, e magari scatenando un tifone sull’altro lato del pianeta. Datare per dimenticare con la pretesa di ricordare. Datare come barare, sapendo bene che la vita non si misura col metro del tempo che passa, bensì con quello dell’uso che se ne fa››.

La chiave di lettura è infatti tutta racchiusa in un’immagine: il nastro di Möbius, dal quale l’autore ha preso il suo pseudonimo. Questa figura non rappresenta altro che un ponte tra un doppio, il punto di congiunzione tra un esterno ed un interno, che Giraud ha tentato di attuare nella sua opera. L’interno è “Gir”, Jekill, il primo pseudonimo col quale l’autore si firmava ai tempi di ‹‹Hara-Kiri›› e ‹‹Pilote››, visibile nelle tavole di “Marshall Blueberry”, il suo primo lavoro seriale e importante (ed accademico? Sì, se si chiude per un attimo la vista periferica che già brama di perdersi negli universi di Moebius) sui testi di J.M.Charlier. L’esterno è invece Moebius, Hyde, che all’interno di ‹‹Métal Hurlant›› ha aperto le sinapsi dei lettori verso universi impossibili e fantastici, che ha scardinato non solo le regole dell’impaginazione e del disegno, ma che ha creato anche un nuovo modo di sceneggiare le trame, considerando la storia non come una retta da percorrere o, citando l’autore stesso, come una casa con una porta per entrare, ma come un qualcosa a forma d’elefante, di campo di grano, di fiammella di cerino[3], ovvero un indefinito viaggio con milioni di spunti da cui deviare verso nuovi orizzonti (e non a caso la storia-manifesto in cui Moebius esce della mente di Giraud è titolata appunto “La deviazione”).

Ma ad un certo punto nel nastro: ‹‹la torsione della striscia annulla la differenza e torna sempre al punto di partenza. Mentre Gir disegna instancabilmente i contorni della realtà, Moebius cerca invece la spiegazione del Mondo››.

‹‹Gir/Moebius […]è come il jazz. Si espone prima il tema. Si ipnotizza leggermente l’ascoltatore, specie se pensa di riconoscere la melodia. Poi, quando lo si ha in pugno, gli si somministra l’improvvisazione, il cui compito è di tuffarlo in un abisso di sensazioni nuove. Blueberry è il tema. Moebius l’improvvisazione››.

Una vita all’insegna del doppio quindi, che tra western tradizionale e fantascienza filosofica ha creato un ponte sia all’interno dell’autore stesso, sia nei lettori nei confronti di un fumetto che di colpo si è scoperto mezzo di comunicazione adulto.



[1] Si veda l’ottimo libro a cura di Patrizia Zanotti “L’autore ed il fumetto /7. Jean Giraud Moebius”, Montepulciano : Editori del Grifo, 1983

[2] Nel suo libro autobiografico “Il mio doppio io”, edito in Italia per la casa editrice DeriveApprodi.

[3] Come è scritto nel retro di copertina dell’edizione del “Garage Hermetique”.

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