L’arte marziale di Yves Klein

Federica Melis. Pioniere della pittura monocroma, precursore della Body Art, illuminato teorico del teatro  morto giovanissimo all’età di 34 anni per un attacco cardiaco, Yves Klein in soli sette anni -dal 1955 al 1962- ha incrociato avanguardie e movimenti , bruciando la sperimentazione pura:  in occasione del cinquantenario della morte del grande artista francese, la città di Genova diviene la sede di una mostra curata da Sergio Maifredi e dal critico d’arte  Bruno Corà, dal titolo “Yves Klein Judo e Teatro Corpo e Visioni”, a Palazzo Ducale fino al 24 agosto. La mostra seleziona come proprio terreno d’indagine due particolari elementi dell’opera di Klein: il judo e il teatro, attraversando il complesso ambito in cui il corpo è protagonista e veicolo di quegli esiti estetici che nella poetica di Klein possono a tutti gli effetti chiamarsi “visioni”. Il corpo, elemento centrale dell’opera di Klein, diviene elemento insostituibile in seguito al suo viaggio in Giappone, esperienza intrapresa per sfuggire alla propria vocazione d’artista, ma che -per sua stessa ammissione- inaspettatamente lo condurrà alla perfetta sintesi di judo, teatro e arte: Ho lottato contro la mia vocazione di pittore, partendo per il Giappone, in cui poter vivere l’avventura del judo e delle arti marziali antiche: allo stesso modo ho lottato contro la mia vocazione di uomo di teatro; ma appunto, il judo, attraverso la pratica fisica e spirituale dei Kata, si è costituito, mio malgrado e nonostante la mia formazione, come quella disciplina dell’arte che è il teatro. Le prime sale sono dedicate all’incontro -durato un anno e mezzo- con il grande Judo del Kodokan Institute di Tokyo; dunque al judoka ancor prima che all’artista, al Klein che profondamente affascinato dal corpo e dal suo  movimento, non si limita ad affacciarsi verso oriente con uno sguardo all’ingrosso, ma che invece -forse anche in maniera non del tutto consapevole- arretra quello stesso sguardo dal grande e indefinito “oriente” e ne restringe il campo visivo al solo Giappone, fino a focalizzare nel dettaglio le teorie e le pratiche di quell’arte marziale ( il judo) che rivelerà un’impalcatura sorretta dagli stessi codici del Teatro No. Questa affinità strutturale fra le due discipline -Judo e teatro- spingerà Klein a seguire un indirizzo sempre meno pittorico e sempre più performativo. Nelle Antropometrie i suoi pennelli divennero i corpi delle stesse modelle che impregnati di “pigmento puro” IKB (International Klein Blue, pigmento blu personalmente brevettato) vennero da lui stesso guidati con sapienza registica  per produrre delle  impronte umane sulla tela-sudario, come quelle di un judoka che cade sul tatami. I corpi si manifestano non più come meri strumenti, ma come complici e parimenti artefici di un’opera che intende trascendere la stessa opera, se non addirittura la stessa arte: accompagnato nella performance dal suono dell’unica nota vibrante per 24 minuti e seguita da altrettanti minuti di silenzio della Sinfonia Monotona-Silenzio –  in linea con l’idea di materia prima e di immaterialità delle monocromie-  Klein riusciva a  produrre un’atmosfera di massima concentrazione, una suspence quasi magica,  una sorta legato energetico che annullava la distanza fra l’azione e il pubblico, divenuto oramai partecipe di un comune rituale. Poca dell’arte di Klein si è impigliata su una tela o fermarsi su una scultura; tanta della sua arte è stata immateriale, come immateriale è il teatro.  Per Yves Klein, l’idea di un’opera d’arte era più importante dell’opera stessa, concreta e realizzata. Lo dimostrano opere come Il Vuoto, esibizione che ebbe luogo nella Galleria Iris Clert di Parigi nell’unica data del 28 aprile 1958, dove una stanza interamente dipinta di bianco avrebbe accolto, vuota e silenziosa, il pubblico in piccoli gruppi o individualmente. Niente di concreto, niente di immediatamente visibile, un evento che nella sua semplicità  mirava a trasfondere a tutti un’esperienza personale di arte. E ancora Dimanche , il giornale di solo un giorno contenente il suo pensiero teatrale (di cui una copia è presente alla mostra al Palazzo Ducale), interamente scritto di proprio pugno e pubblicato in occasione del Festival delle Arti d’Avanguardia il 27 novembre 1960. Teatrali e inafferrabili furono le vendite di opere immateriali, concretamente inesistenti, ad acquirenti come Dino Buzzati e Lucio Fontana  per poi scagliare nella Senna il ricavato in oro e la “regolare ricevuta” rigorosamente blu. La volontà di voler andare oltre il feticcio dell’opera, l’inesauribile ricerca di un punto al di fuori degli eventi terreni e quotidiani, il tentativo di raggiungere i confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’immateriale e dell’indefinibile, permea tutta l’opera dell’eclettico artista. Così anche la mostra genovese, come a voler restituire l’immagine più autentica di questo grande artista, non si costituisce come una “canonica” mostra di opere d’arte, perchè di opera ce n’è solamente una, ma colossale: la celebre Piscina Blu IKB, una piscina di oltre 10 m per 5 m completamente realizzata in pigmento IKB. Bensì si configura come un percorso che intende celebrare il “mondo di Klein” in tutte le sue declinazioni attraverso materiali mai pubblicati, spezzoni di film mai realizzati ( La Guerra tra linea e colore), film inediti realizzati in Giappone, fotografie, oggetti, documenti e schizzi, intrecciati ai due fili conduttori di Judo e teatro.

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