Around Bologna

Frontier – La Linea dello Stile

Marco Scotti. È giusto chiedersi innanzitutto cosa sia Frontier. Non possiamo chiamarlo festival – ci sono importanti esperienze in Italia in questo senso come Fame festival a Grottaglie o Picturin a Torino, ma si nota da subito qui un’impostazione completamente differente -, e non è neppure un’operazione come può essere stata Viva La Revolucion[1], in cui i muri erano la controparte, o meglio il corollario, di una vera e propria mostra organizzata negli spazi espositivi del Museum of Contemporary Art di San Diego. Diciamo allora che Frontier si presenta come una serie di cantieri – previsti tra Giugno e Luglio 2012 – che diventeranno un circuito di muri nello spazio urbano della città di Bologna, fruibili liberamente e legati a doppio filo ad alcuni quartieri con una precisa identità e significato storico. Il percorso è libero – e il trekking urbano il modo probabilmente migliore per affrontarlo, tanto che l’Urban Center di Bologna organizza regolarmente camminate tra i cantieri – in un arco che comprende i quartieri a nord della città, da S. Vitale alla Bolognina per arrivare al Navile. Un progetto aperto, o almeno possiamo sperarci, ma soprattutto un progetto curatoriale che guarda alla storia del writing e al formarsi delle diverse forme e linguaggi espressivi. Le scelte dei curatori Claudio Musso e Fabiola Naldi hanno voluto cercare una prospettiva che racconti il differenziarsi e il frammentarsi dello stile, che d’altra parte è uno degli elementi fondamentali del writing stesso: collocandosi tra esperienze di dialogo con lo spazio urbano, Frontier non ha paura di proporre una precisa linea storica, in un contesto culturale in cui sono già apparse le prime storie ufficiali e precisamente orientate – basti pensare alla grande retrospettiva organizzata nel 2008 presso la Tate Modern di Londra, che tuttavia si limitava a livello espositivo a poco più che quattro grandi lavori lungo la facciata dell’edificio –  come in un contesto più legato al territorio invece che a Bologna vede una tradizione[2] importante di studi e sperimentazioni.

La ricerca di una continuità, di percorsi e collegamenti fin dal titolo – La Linea dello Stile –   si sostituisce alla ricerca di specificità e definizioni, tra Street Art e Graffiti Writing, ai compartimenti e alla distinzione che Cedar Lewisohn individuava in base alla volontà di rivolgersi a una comunità chiusa o a un pubblico il più ampio possibile: “Graffiti writing has a very specific aesthetic: it’s about the tag, it’s about the form, it’s about letters, styles and spray paint application, and it’s about reaching difficult location. If we think of Street Art as to quote Felkner, ‘all art on the street that it’s not graffiti’ then the definition is extremely broad, and this broadness reflects the genre freedom” [3].

Sicuramente nella rassegna bolognese una distinzione non è così semplice. Basti pensare anche solo alla scala a cui sono riportati tutti i lavori, che spesso impone a iconografie e ricerche figurative di mettersi in gioco con derivazioni che dal lettering arrivano a un progetto più complesso per occupare lo spazio a disposizione sulle grandi facciate. È inoltre un sistema la cui straordinarietà deriva dalla complessità come dalla contraddizione: in fondo è anche un progetto voluto da una committenza pubblica, il Comune di Bologna in primis, e in relazione – spesso un dialogo non privo di tracce di memoria e contestazione – con uno spazio architettonico e sociale articolato, e la scelta di una linea curatoriale si confronta con tutti questi elementi. Non è un caso d’altra parte che i muri siano tutti muri di proprietà comunale, la maggior parte in gestione ad ACER (Azienda Casa Emilia-Romagna della Provincia di Bologna). Il ruolo del curatore, poi ovviamente si esplicita nelle scelte, degli artisti come delle location, per questo il racconto, peraltro parziale visto il carattere ancora in fieri della manifestazione, dei lavori vuole essere un primo tentativo per una panoramica di un modello critico ed espositivo che rispecchia l’articolazione del sistema urbano stesso che lo ospita.

M-City, l’artista polacco da cui ho scelto, gentilmente accompagnato dal curatore Claudio Musso, di iniziare il mio personale percorso tra i muri, ci riporta subito al rapporto con il luogo, il quartiere San Vitale in questo caso, Rione Cirenaica, un esempio di architettura residenziale popolare della seconda metà degli anni Trenta: il muro è rivolto verso la ferrovia che porta in direzione Verona e per anni ha trasportato gli operai delle fabbriche nate e cresciute intorno alla città, gli stessi operai che questo quartiere hanno a lungo abitato: la scelta del luogo è un dialogo di per sé che continua attraverso l’iconografia dell’artista, fatta di dettagli, ingranaggi e landscape post-industriali, e attraverso la tecnica che racconta di un lavoro minuzioso attraverso lo stencil (unico tra gli artisti di Frontier per ora a scegliere di avvalersi di questa tecnica) per arrivare alla grande scala, completato solo da lacune grandi campiture e forti segni di colore.

Che la linea dello stile sia particolarmente intricata lo capiamo subito avvicinandoci  verso via San Donato, dove ci attendono tre muri in sequenza: apre il parigino Honet, che dai treni e dalle ferrovie ha cominciato la sua ricerca personale e qui arriva a raccontarla ripartendo dal segno grafico come dalla figura. Il monumentale Elephant and Castle, riferimento al monumento mai completamente realizzato in Piazza della Bastiglia alla gloria napoleonica nonché una delle più celebri leggende metropolitane  e argomento di dibattito nella città ottocentesca, è qui tradotto e riportato a Bologna in un linguaggio vicino all’illustrazione in cui il discusso monumento pubblico voluto dal potere a una figura sostenuta da precari palloncini, a loro volta beccati da alcuni uccelli neri, e costruita attraverso linee e grandi campi uniformi di colore.  Qui, come in tutti gli altri casi, basta guardare alcuni dei materiali audiovisivi pubblicati on-line dallo staff di Frontier – assolutamente ammirevole sotto questo punto di vista – per realizzare l’importanza del progetto dietro a questi lavori. Può sembrare una contraddizione per un linguaggio che affonda le sue radici anche nell’improvvisazione e nella rapidità d’esecuzione, ma la complessità e il dettaglio sono affrontati attraverso un lungo lavoro preparatorio, che nel caso di Honet porta ad esempio a tracciare le linee seguendo una proiezione in notturna a scala 1:1.

Il dialogo diventa serrato, solo pochi metri più avanti tra i muri di due degli artisti italiani presenti, Etnik e Dado: su due palazzine gemelle il primo riprende i suoi ultimi lavori elaborando un esercizio di stile per arrivare a occupare l’intera superficie con una composizione di figure tridimensionali e decostruite che rimandano a prospettive urbane, mentre Dado – uno degli animatori di questa iniziativa – applica tecniche e stili del writing a una composizione complessa ai limiti del figurativo, in uno stile che si presenta come uno dei tanti possibili superamenti del writing inteso come genere storicamente codificato.

D’altre parte con pochi minuti di cammino possiamo raggiungere via Michele Colonna, nel quartiere della Bolognina, dove il muro dell’olandese Does ci pone di fronte ad ulteriori problemi sempre attraverso uno stile personale nell’affrontare il classico esercizio della scrittura del proprio nome, mentre nel muro a fianco la dicotomia si ripresenta con il linguaggio figurativo di Eron, al momento work in progress. Tuttavia già inizia a emergere tanto un messaggio di forte confronto con in contesto e con strategie politiche e sociali quanto una tecnica fondata sull’uso dello sfumato: alcune gru, visibili per ora solo come linee e qualche tratto di bianco diffuso, attaccano l’ombra delle grandi gru da costruzione che connotano ormai da tempo questo quartiere in piena fase di ricostruzione edilizia tra i lotti popolari rimasti, non a caso coperti di scritte contro una possibile gentrification.

Oltre il Navile, in via Marco Polo, Joys e Rusty si confrontano invece in una lettura del rapporto con l’architettura e lo spazio attraverso la scala monumentale, interpretata  da Joys attraverso una progettazione meticolosa delle forme, delle luci e delle ombre, seguendo le forme irregolari della facciata che arrivano ad esaltare un linguaggio e uno stile geometrico attentamente perfezionato in anni di esperienze e lavori. Oppure in un confronto, nel caso di Rusty, che troviamo ancora al lavoro, con la citazione di un pattern decorativo regolare e scandito, posto come sfondo, che fa risaltare ancora di più la complessità e l’articolazione tra le linee che andranno a comporre il nome dell’artista, mentre un oggetto simbolicamente sovrasta la composizione.

Naturalmente oggi una parte dei muri ancora non sono stati realizzati o lo sono solo in minima parte, dalle figure e i personaggi di Cuoghi Corsello ai nuovi linguaggi degli italiani Hitnes e Andreco, fino all’interessantissimo confronto del tedesco Daim con le architetture del nuovo Comune di Bologna, oltre al leggendario Phase II, rappresentante storico della scuola Newyorchese che fa da riferimento a molti degli artisti invitati, di cui ancora si attende la data del cantiere, non presente sulla mappa.

La Street art rimane così per le strade a dialogare con lo spazio urbano, mentre gli spazi del museo – il MAMbo, uno dei partner dell’evento – saranno destinati a un momento di approfondimento teorico e critico a Gennaio. I muri rimarranno, con l’inevitabile grado di effimero che è presente in qualsiasi intervento di questo genere, in attesa di confronti, sovrapposizioni e riscritture.



[1] Viva La Revolucion. A dialogue with the urban landscape, Museum of Contemporary Art of San Diego in association with Gingko press, San Diego, 2010.

[2] Arte di frontiera. New York graffiti, da un progetto di Francesca Alinovi, catalogo a cura di Marilena Pasquali e Roberto Daolio, G. Mazzotta, Milano, 1984.

[3] Cedar Lewisohn, Street Art. The Graffiti Revolution, Tate publishing, London, 2008 , p. 23.

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