To be or not to be? Il paradosso dei baffetti neri

Giuditta Naselli. “Non abbiamo forse occhi? Mani, sensi, affetti, passioni? Non ci nutriamo con lo stesso cibo, non ci feriamo con le stesse armi, non siamo soggetti agli stessi morbi? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci solleticate non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?”. Così recita Felix Bressart che in Vogliamo vivere (To be or not to be, 1942) interpreta lo Shylock shakespeariano in una messa in scena realizzata con la sua compagnia teatrale per sfuggire ai nazisti che hanno da poco invaso Varsavia.

Con Vogliamo vivere il regista Ernst Lubitsch sfrutta il suo retaggio teatrale creando una feroce satira che, attraverso innumerevoli gag e situazioni farsesche, ridicolizza e dissacra il nazismo. In un momento storico in cui alla Conferenza di Wannsee di Berlino viene predisposta la soluzione finale della questione ebraica, Lubitsch, intellettuale ebreo europeo, immigrato nel 1922 negli Stati Uniti, espone il suo dissenso con un’opera metateatrale nei confronti di una guerra tragica per quanto ridicola.

La compagnia teatrale polacca, guidata da Joseph e Maria Tura, rispettivamente Jack Benny e Carol Lombard, costruisce una collaudata messa in scena eroicomica, abilmente condita da battute travolgenti e ritmo serrato, dimostrando quanto  il confine tra realtà e finzione possa essere labile.

Quando, nel 1942, il film uscì nelle sale, non fu facilmente accettato dalla critica e dal pubblico di allora per la scottante attualità del tema trattato. Perché Ernst Lubitsch, regista di commedie esilaranti e film musicali capricciosi, sceglie di girare un film comico su una tragedia come l’Olocausto?

Probabilmente il regista ha l’eguale consapevolezza che ha Kierkegaard nel ritenere che il mondo è dotato di una tale oscura doppiezza da poter essere decifrata solo attraverso il paradosso, elemento intrinseco alla comicità. “Il paradosso è il presupposto del filosofare perché esso scaturisce dalla verità e dall’esistere come posti insieme nella situazione bifronte dell’esistenza.[…] il paradosso è la passione del pensiero, e la passione più alta della ragione, è volere l’urto, benché l’urto possa in qualche modo segnare la sua fine”[1].

Lubitsch sfrutta i dettami della comicità per rappresentare i capi della Gestapo come “fantocci senza cervello”, che ridono di barzellette su Hitler (“si dice che un cognac l’hanno chiamato Napoleone, che di Bismarck ne hanno fatto una bistecca e di Hitler ne faranno una polpetta”) ma soprattutto come uomini totalmente asserviti ad un regime di cui non capiscono fin in fondo l’ideologia. Ne è dimostrazione la raffigurazione che Hannah Arendt ne La banalità del male fa di Adolf Eichmann, funzionario tedesco considerato uno dei maggiori responsabili dello sterminio della popolazione ebraica: “ Eichmann non s’iscrisse al partito per convinzione, né acquistò mai una fede ideologica: ogni volta che gli si chiedevano le ragioni della sua adesione, ripeteva sempre gli stessi luoghi comuni sull’iniquità del trattato di Versailles e sulla disoccupazione”.[2]

Il regista Ernst Lubitsch trasforma il mondo in scena teatrale e viceversa, svela  l’artificio illusorio dello spazio teatrale, e con esso dello spazio cinematografico, e riscrive la Storia come trasformazione del teatro in cinema, rinchiudendola tra le mura del teatro di Varsavia, dove la resistenza polacca anela alla libertà e alla fine della repressione tedesca. Prendendo dalla tradizione letteraria le figure letterarie, il regista le reinventa nello spazio cinematografico, attraverso una regia che non lascia niente al caso, facendo un omaggio a Shakespeare, che aveva imparato a conoscere quando, da giovane a Berlino, lavorava come attore nella compagnia di Max Reinhardt.

Mentre Charlie Chaplin con Il grande dittatore (The Great dictator, 1940)  lavora per mesi al  discorso finale, Lubitsch si fa prestare le parole dal più grande drammaturgo di tutti i tempi, ma entrambi raggiungono il proprio intento, restituendo agli spettatori di tutto il mondo un cinema che si distingue per l’irriverenza e la spregiudicata modernità.



[1] Rosella Prezzo (a cura di), Ridere la verità, Milano, Cortina, 1994, p.27.

[2] Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 41.

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