Occupy Frank Capra!

Giuditta Naselli. “Ho visto tipi come te schiacciati da gente che non ha mai avuto problemi e alla fine si sono montati tutti la testa. La prima cosa che capita ad uno come te è che vuole andare a cena nei ristoranti e sedersi a un tavolo e mangiare insalate e pasticcini…e non sai quanto male può farti quella roba…e poi si passa a pretendere una stanza! Sissignore, una stanza ben riscaldata, con le tende alle finestre… e in men che non si dica sei così rammollito che non dormi se non hai un letto. Ho visto tanta gente cominciare con meno di cinquanta dollari e finire con un conto in banca. Posso giuranti, Long John, che quando sei arrivato a d avere un conto in banca ti hanno in pugno. Sissignore, ti hanno in pugno”.

Così esordisce Walter Brennan che in Arriva John Doe (Meet John Doe, 1941) riveste il ruolo del “colonello”, spalla e grillo parlante del protagonista. Le sue parole, a distanza di quasi settant’anni, sono simili a quelle che abbiamo sentito, nei mesi scorsi, pronunciare dagli indignati di Occupy Wall Street, in lotta contro i tycoons al potere, colpevoli di aver seminato l’attuale crisi mondiale. Per questo motivo, alla vigilia delle elezioni americane che forse, ancora una volta, cambieranno le sorti dell’economia mondiale, è interessante fare qualche passo indietro nel tempo fino agli albori della società americana quando l’establishment era ancora in fase di realizzazione e chiedersi “Le cose sono cambiate?”.

Già, tempo fa, in una severa macchina industriale, come quella cinematografica hollywoodiana, un patriottico regista, dal nome Frank Capra, gira film conosciuti e amati per il loro fervore rivoluzionario e per l’amore per un paese edificato dalla piccola gente. Il regista può essere considerato il tipico uomo roosveltiano degli anni Trenta e Quaranta che crede profondamente nel suo paese e nella comunità americana. I suoi film, pervasi da un ottimismo commovente e utopico, non scadono mai nella mediocrità. Nessuna ovvietà e apologia della convenzione per pellicole che raccontano storie che accomunano ognuno essere umano, tanto che, dalla prima inquadratura, sembrano intonare “Once upon a time”. 

Il protagonista, interpretato da un affascinante Gary Cooper, assume il ruolo di John Doe, un uomo senza dollaro e dimora, che per amore di una donna (la bellissima Barbara Stanwyck) diventa burattino nelle mani di un potere che si appropria della sua esistenza attribuendogli un nuovo nome.

Chi è allora John Doe?

John Doe è un nome che, nel gergo giuridico statunitense, veniva utilizzato per definire colui di cui andava mantenuta incolume l’identità. Nel corso del tempo il nome è entrato nella cultura popolare americana diventando figlio del milite ignoto e identificandosi con coloro le cui generalità sono sconosciute. Ma la verità è quanti John Doe conosciamo? E non siamo anche noi dei John/Jane Doe? Coloro che hanno inaugurato la primavera araba occupando luoghi di culto e deponendo, con lacrime e sangue, tiranni e che hanno incoraggiato intere generazioni americane ed europee a scioperare davanti ai centri della finanza, prima di essere accomunati dalla stessa disapprovazione nei confronti di un potere becero e meschino, non condividevano lo stesso nome, John Doe?

Come settant’anni fa anche oggi dovremmo leggere e abbracciare il pensiero trascendentalista del filosofo Thoreau che nel rapporto viscerale con la natura aveva ritrovato l’essenza umana o forse ci basterebbe solo guardare Frank Capra e ascoltare le parole di Walter Brennan quando spiega ad una comparsa chi sono gli “iloti” e perché bisogna averne paura.

“Ehy bellezza, sei mai stato al verde? Allora immagina… cammini da solo, senza un soldo in tasca, libero come il vento e nessuno che ti dà noia. Intorno a te centinaia di persone che vendono di tutto: scarpe, capelli, radio, automobili, ogni cosa. Sono tutte persone gentili ed amabili e ti lasciano in pace. Poi ti finisce in tasca qualche dollaro e che succede? Tutte queste persone gentili ed amabili si trasformano in “iloti”, schiavi e persecutori e cominciano subito a tormentarti, cercano di vederti la loro roba, ti afferrano alla gola con i loro artigli e non mollano più la presa. E tu urli, ti dimeni e cerchi di respingerli in qualche modo ma non puoi farci niente, ti hanno in pugno, ti costringono a possedere delle cose… un automobile per esempio… e tutta la tua vita diventa fatta di robaccia di questo tipo: paghi le tasse di concessione, i costi della benzina e i ricambi e l’olio e sovrattasse e assicurazioni e ancora carte di circolazione e lettere e ricevute e gomme sgonfie e ammaccature sulla carrozzeria e parcheggi e poliziotti in motorino e giudici civili e multe e poi? Un milione di altre cose! Cos’è successo? Che tu non sei più libero e felice come prima, devi procurarti il denaro per pagare tutte queste cose, vuoi possedere tutto quello che gli altri posseggono ed ecco fatto anche tu ora sei un ilota!”

Oggi Occupy Wall Street è impegnata a combattere quegli stessi iloti di cui parla Frank Capra in una battaglia che ha come fronti due Americhe, una oligarchica, elitaria, privilegiata, l’altra democratica, liberale, progressista. Ma a differenza delle parole del regista, ormai impresse nell’immaginario collettivo, il movimento di Occupy Wall Street è destinato a fallire, in quanto nella sua denuncia, rifiuta qualsiasi tipo di mediazione. Non accettando un rapporto con le istituzioni, gli indignati americani sono destinati al silenzio perché fautori di una politica della testimonianza, piuttosto che della rappresentanza. Se non scenderanno a patti con le istituzioni e non cercheranno di sovvertire il sistema dall’interno sarà impossibile effettuare quel cambiamento tanto auspicato e concludere la protesta con quell’happy ending, per cui era famoso Frank Capra.

 

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