Pamphlet alla Lermontov

(Cercando di non fare di tutta l’erba un fascio)

Martina Bollini. Non è necessario partire dal taglio di bilancio dell’ultima ora per constatare l’assoluto disinteresse di questo Governo, così come di quelli precedenti, nei confronti del mondo dell’arte. I Beni Culturali sono stati sistematicamente ignorati da tutte le campagne elettorali degli ultimi decenni, secondo la più rigorosa par condicio. Sembra vengano considerati come un’inutile appendice che ci si è ritrovati per le mani. È una visione ottusa e controproducente. E purtroppo molto diffusa.

I Beni Culturali sono l’Italia, ne raccontano la storia. Ma si sa, questo Paese tende ad avere  la memoria corta, la sua storia l’ha spesso dimenticata, scegliendo così di privarsi di una forza potentissima. Quello che l’Italia potrebbe fare del proprio patrimonio culturale è scritto in centinaia di libri, è talmente tanto che nemmeno ci sta, in quei libri. Ma… lascio ai lettori la libertà di trarre le conclusioni che ritengono più giuste. Ce ne sono troppe.

Nondimeno, è utile precisare che queste constatazioni non devono leggersi come il solito “piove, governo ladro”. La tentazione di attaccare la classe dirigente, i vertici del Ministero è grandissima e largamente giustificata. La politica ha molte responsabilità nei confronti del tracollo del mondo della cultura, colpe che hanno avuto ricadute pesantissime sul modo in cui l’arte – contemporanea e non – viene recepita. Tuttavia queste constatazioni non dispensano chi fa parte di questo mondo a condurre una riflessione sul proprio ruolo di operatore culturale.

Se l’arte è lontana dalla gente è perché spesso, chi potrebbe, non fa nulla per attrarla nel proprio mondo. Mi riferisco in particolare a quella compagine di storici e critici d’arte trincerata dietro le mura delle biblioteche, che lavora solo per se stessa e allo stesso tempo contro se stessa.

Compito del critico d’arte è fare opera di mediazione, orientando gli interessi e le scelte del pubblico (lo dice la Treccani, non lo dico io). A questo compito, però, molti critici sembrano aver abdicato. Gli stessi che poi pontificano sulla mediocrità dell’uomo medio preda del consumismo più sfrenato[1], sulla bassezza del suo profilo culturale eroso dal gretto cicalare televisivo.  Ma che poi a conti fatti non fanno nulla per cambiare le cose ivi compreso, nella stessa mentalità che li conserva, la possibilità di reclamare maggiore spazio, pur essendo ammanicati con le alte sfere (ovviamente le eccezioni ci sono, basti pensare alle campagne su stampa di Tomaso Montanari).

Eppure di figure di mediazione la società ha un disperato bisogno, oggi più che mai. Il loro ruolo andrebbe istituzionalizzato nei musei (che così non avrebbero più scuse per sfruttare tirocinanti e volontari) come nel campo dei media. Naturalmente queste figure devono essere altamente formate (e queste figure ci sono! Un esercito di laureati sarebbe pronto ad impugnare le armi), perché il pericolo del pressapochismo è sempre dietro l’angolo. Basti pensare a cosa succede sulla stampa italiana quando, per esempio, vengono ritrovati dei presunti disegni di Caravaggio, la rock star più amata dell’arte: si scrivono un sacco di stupidaggini. Perché chi scrive, in molti casi, non conosce l’argomento di cui tratta.

Se le cose vengono spiegate poi si capiscono (di solito). Se poi si spiegano bene magari si riesce anche a distinguere quando un’informazione è corretta o meno, se è sostenuta da solide basi oppure no. Si tratta davvero di concetti spicci. In altri Paesi pare li abbiano capiti da un pezzo, e senza difficoltà. Un critico d’arte può fare tv senza che i suoi esimi colleghi lo ritengano “sputtanato”[2]. La televisione pubblica manda in onda, in prima serata, documentari sulla storia dell’arte, condotti da giovani studiosi[3]. In Italia, invece, la divulgazione è spesso trattata dagli addetti ai lavori con sommarietà, se non con qualche sfumatura di disprezzo. Ma la divulgazione, così come la ricerca, devono essere l’obiettivo primario di chi fa Cultura. Un grandissimo intellettuale come Federico Zeri l’aveva capito e parlava d’arte alla gente. E il suo valore di studioso non si è sminuito, nonostante sia stato osteggiato dai poteri accademici per tutta la vita.

È facile parlare ai propri simili. Parlare a chi è diverso è invece difficilissimo, costituisce una sfida ardua. Chi si occupa di cultura è chiamato quindi ad una doppia sfida: contro se stessi e la tendenza ad arroccarsi in torri d’avorio e contro il sistema che ostacola la diffusione della conoscenza. Chi riesce a vincere queste sfide, a mio parere, va considerato un vero e proprio eroe dei nostri tempi.

 

 

 

 



[1] Cfr. Pier Paolo Pasolini – La Ricotta, 1963 (L’uomo medio) http://www.youtube.com/watch?v=G6AvqCUyhOo

[2] Cfr. Il documentario della BBC The Power of Art condotto da  Simon Schama http://www.bbc.co.uk/arts/powerofart/

[3] Cfr. A History of Art in Three Colours: http://www.bbc.co.uk/programmes/b01l9mf8.

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