Risonanze metalliche. Le sonorità “industriali” di Alberto Tadiello

 

Pasquale Fameli. Il suono e l’elettricità condividono una natura ondulatoria che li rende mezzi intercambiabili e tra i più adatti a una ricerca artistica proiettata verso l’immaterialità e la leggerezza. Sfruttando materiali comuni come motorini e cavi elettrici, il vicentino Alberto Tadiello[1] (1983) costruisce insoliti congegni attraverso cui trasformare l’energia in suono, esplorando l’applicazione di meccanismi funzionali in una condizione processuale sterile e autotelica. È quanto accade, ad esempio, con EPROM (2008), dove mappe schematiche e minimali di sottili cavi elettrici attivano quaranta carillon (posti alle loro estremità come le mete di un percorso) a una velocità di rotazione tale da logorare gradualmente i piccoli cilindri, annullando le loro sequenze melodiche in un frenetico e stridente turbinio di freddo rumore metallico. Qualcosa di simile accade anche nelle componenti sonore di altri suoi lavori, ossia nelle diverse elaborazioni elettroniche di vari campionamenti, tirati a velocità elevatissime oppure fatti marcire in un corrosivo rallentamento. L’espansione delle onde sonore sembra trovare inoltre profonde corrispondenze nel suo lavoro grafico, caratterizzato dalla libera stratificazione di semicerchi nello spazio del foglio, quasi in un incontenibile accumulo di forze centrifughe che sembra alludere, pur nella sua elementarità strutturale, al diffondersi ambientale di rumori e radiazioni.

La rarefazione degli inizi si ribalta però ben presto nel suo opposto, trovando corpo nella pesantezza e nella solidità del metallo, recuperando carcasse industriali e meccaniche come aberranti resti di uno scenario post-atomico. In installazioni del 2010 quali LK100A e HL, contorti grovigli tubolari trasmettono diarroici flussi di rumore che sgorgano da enormi trombe metalliche, quasi in un cogente richiamo al futurista Luigi Russolo e ai suoi Intonarumori. Forse, il recupero di un desueto immaginario meccanico-industriale non è da interpretarsi nel senso di un omaggio agli albori della civiltà contemporanea, nell’atteggiamento che fu tipico delle avanguardie concreto-costruttiviste, ma nel senso di un riuso, quasi in una ritrovata poetica MERZ (à la Schwitters), una decongestione del detrito, dello scarto meccanico, ormai ampiamente superato dalla leggerezza dei circuiti elettronici e dall’immaterialità della codifica digitale. Così, mentre tre vecchi cingoli sembrano riposare in un profondo letargo, una frastagliata rosa di lamiere e barre d’acciaio minaccia lo spettatore con le sue punte, i suoi cunei e le sue frange affilate, e lo scheletro di una betoniera “tarantolata” ruota ininterrottamente senza assurgere alla funzione preposta, impastando, al più, il cacofonico barrito dei suoi stessi ingranaggi. Torna, dunque, l’idea duchampiana (più ampiamente sviluppata dallo svizzero Jean Tinguely) della “macchina celibe”, di una tecnologia defunzionalizzata al fine di una sua piena autodeterminazione estetica, come viene da pensare anche per i  clacson appaiati di E13 00625, che richiamano alla mente prototipi di armi sonore, o per gli altoparlanti abbottonati alla parete di Shift, quasi propensi a sgretolare la superficie con la forza delle loro vibrazioni. In altre opere più recenti come Elektronskal (2011), Hyper e Taraxacum (2012), cavi elettrici, profilati metallici, lamiere e lampadine vengono riscattate dal loro comune utilizzo attraverso ingegnose riconfigurazioni dal forte carattere decorativo, come sintetiche infiorescenze con pistilli di luce o geometriche campanule risonanti.



[1] Per ulteriori informazioni sul giovane artista si vedano D. CAPRA, G. CARBI (a cura di), Alberto Tadiello 20kHz. Premio Giovane Emergente Europeo Trieste Contemporanea 2008, Juliet, Trieste, 2008; F. DI NARDO (a cura di), Alberto Tadiello, in «KLAT Magazine», n. 1, inverno 2009-2010, pp. 101-105; D. ZANGRANDO (a cura di), Alberto Tadiello, Perarolo di Cadore, 2009 e ID., Alberto Tadiello. Delle bestie e del disgelo, in «Flash Art», n. 285, luglio 2010, pp. 56-58.

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