Le agitate sono andate a prendere il tè

di Paola Pluchino

#Benjamin Britten – Playful Pizzicato

Aprire una mostra d’arte completamente declinata al femminile con dei trattati sull’isteria lascia perlomeno perplessi e ironicamente sbigottiti.

Esprimersi al femminile è certo una mossa che andrebbe lodata alla luce della recente attenzione che a questo sesso l’opinione pubblica ha prestato; dalle quote rosa della politica alle manovre sociali di tutela e parità dei diritti, in uno stato dove lo strapotere maschile spesso impera senza meriti apparenti. Questo ci si poteva aspettare da Bologna: un filone d’indagine anglosassone, che dalle suffragette risalisse alla legge sull’aborto, alla conquista di diritti, via via più dignitosi, concretamente indipendentisti e veementi.

Invece, nel mutuare un ragionamento che ha preso le mosse da un territorio fallocentrico, questa curatela in realtà ha solamente evidenziato un disagio nel confronto, pur con tenerezza e note d’intimismo estremo, con fragilità femminile che è per sua natura fusione col sublime ma in sintesi  tarpandone le prospettive d’indipendenza e denuncia.

Dall’ isteria come storico incipit di quelli che oggi ormai in maniera stancamente obsoleta sono definiti Gender Studies e che proprio sull’indagine del famoso sanatorio parigino – quello della Salpêtrière di Jean – Martin Charcot – hanno poggiato le loro solide basi d’indagine, la mostra prende avvio. Nulla da dissentire, non fosse altro che quegli studi vennero compiuti – volendo ragionare per categorie di genere – da uomini. Molti ricorderanno gli scatti che accompagnano queste riunioni dove accanto a Charcot campeggiavano gli illustri medici dell’epoca ( Gilles de la Tourette, Le Lorrain, Babinski, solo per citarne alcuni), quegli illuminati e ragionevoli psicanalisti che identificavano in certi atteggiamenti e incandescenze forme primarie di una malattia endemica, visibilmente percepibile in movenze specifiche e fattezze peculiari.

L’indagine si accompagna a degli appunti (M. A. Trasforini, La bella indifferenza, dattiloscritto, 1980) esposti come una sorta di breviario da contrabbando in cui le analisi della studiosa ripercorrono quel mal di vivere che, appartenuto al mondo fino all’Ottocento, venne lasciato in eredità solo ad una parte di questo:  la memoria di un contrappasso che rese, nel giro di poco la musa un caso clinico da imbrigliare, indagare e contenere. Eventualmente, qualora la vertigine della visione non fosse sufficiente, il taumascopio presente all’ingresso consente allo spettatore di deformare la visione ancor di più.

Così si apre la mostra che spinge con questo bagaglio culturale lo spettatore nel caotico e frammentario salone centrale, per sua stessa architettura già castigato, così addobbato ancor più confusionario e potenzialmente passibile di derisorio biasimo. Le opere in mostra, calibrate sotto la lente personale potrebbero anche rivelare del talento semiotico (Chiara Pergola, Proposta di dialogo. Crittografia Enigmista, 2013), citazionista (Annalisa Cattani, Novella, 2001, 13’ 26” DV PAL,  Daniela Comani, Daniela Comani’s Top 100 Films, 2012), poverista (Marion Baruch, Duchamp, 2013, Anna Valeria Borsari, Autoritratto in una stanza, 1977, Enrica Borghi, Meduse, 2013), estetizzante (Elisa Sighicelli, Untitled – Tape – 2011,  , Grazia Varisco, Bianca e Volta, Extrapagina, 1983) o ricco d’ombre cariche di tradizione (Letizia Renzini, Stai, 2013, Moira Ricci, 20.12.53 – 10.08.04 – mamma innaffia -,  Anna Maria Maiolino, Por um fio – serie Fotopoemação, 1976, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), dotate di quel quid intenso ( Sabrina Mezzaqui, I quaderni di Simone Weil, 2010 -2013, goldiechiari, Anygirl, 2012), ingegnoso (Margherita Morgantin, Sequenza Visiva di numeri primi, 2011), sottilmente carnale (Christiane Löhr, Kleine Haarabeiten, 2003 – 2013) o etereo come la musica (Alice Cattaneo, Untitled, 2012) ricco di stimolanti spunti. Tuttavia nell’armonia corale tendono a collassare, finendo per essere un colabrodo emozionale dall’ aura un po’circense.

Tra spugne (Maria Morganti, Sedimentazione a ritroso, 2013), leziose ossessività ( Elisabetta di Maggio, S-tr 22/ L-xf 51, 2013, Chiara Camoni con Ines Bassanetti, (Di)segnare il tempo,2006 ), intenti pop (Alessandra Spranzi, Nello stesso momento #1, 2013 e Tatiana Trouvé, Untitled from the series Intranquillity, 2011) e macchinette a gettoni per haiku d’ispirazione perugina (Mili Romano, Dea Madre, 2013), il femminile ne esce distorto ed eccessivamente truccato, appesantito e sconnesso nello sviluppo della sua identità di genere. Perse in coordinate d’indagine (tra Carla Lonzi e Griselda Pollock), le nostre pur brave artiste si divorano l’un l’altra appesantendo ognuna con il proprio autoritratto il fardello interiore dell’opera vicina e così via, in un gioco al domino che è quasi una composta indifferenza per l’occhio e che innalza muri d’incomunicabilità tra le opere che non riescono mai veramente a dialogare.

Discorso a parte, purtroppo non con toni così dissimili merita la curatela, affidata a Uliana Zanetti che ha coordinato una team di lavoro collettivo e aperto, formato da un gruppo di professioniste (si ricordano gli innesti di a.titolo e il sentito encomio a Marina Lai – in mostra con I racconti del lenzuolo, 1984 e I racconti della montagna.  Ulassai, 1981– elaborato da Cristiana Collu)  di operatrici culturali provenienti del Museo e non solo. Parte di queste ( Anna Rossi, Barbara Secci, Carlotta Guerra, Eva Fucks, Giorgia Soncin, Giulia Pezzoli, Liliana Fenu, Sabrina Samorì e Uliana Zanetti) sono state coinvolte anche nella performance di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, Vai pure, 2013, dove ad ognuna di esse è stato chiesto di esprimere il proprio personalissimo disagio nei confronti del sesso opposto.

Volendo maturare un ragionamento che potesse dirsi veramente dialettico e come tale fondarsi su coordinate credibili, riconoscibili e veritiere, sarebbe stato più opportuno che perlomeno la curatela venisse affidata ad un entourage scientifico che prescindesse dalla componente sessuale poiché questo in alcun modo dovrebbe oggi costituire un discrimine.

Il rischio e il limite così come risulta evidente è stato proprio quello dell’eccessiva autoreferenzialità dei contenuti e del gusto che ha finito inevitabilmente per cadere proprio nello stesso stereotipo che pareva volesse apertamente contestare:  riscattare un genere epurando il contraltare.

Parole forti certamente che riflettono la considerazione – femminile – che per essere d’impatto ed emanciparsi bisogna reputarsi primariamente parte di un unico genere: quello umano.

 

 

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