Favelli, una metafisica degli arredi

Pierluca Nardoni. Sin dalle ultime battute del secolo appena trascorso, la ricerca artistica di Flavio Favelli (1967) si presenta come una delle risposte più interessanti al clima post-concettuale degli anni Novanta. Laddove artisti come Cesare Pietroiusti o Emilio Fantin tentavano di fornire una struttura quanto mai immateriale alle loro brillanti “pensate”, Favelli propone opere dal rinnovato spessore fisico, voluminose e ingombranti, restituendo cittadinanza anche a una manualità preziosa e artigianale. Si tratta di mobili e di altri pezzi di arredamento presentati secondo la pratica del ready made, ossia, in fin dei conti, ricorrendo a una delle opzioni stilistiche della cosiddetta Arte concettuale. Tuttavia, lungi dal recuperare l’anima asettica e mentale del modello duchampiano, Favelli sceglie i suoi oggetti per il loro aspetto singolare e raffinato, spesso persino lezioso, attingendo a piene mani dalle botteghe di antiquariato. Queste “buone cose di pessimo gusto” vengono poi smontate, rimontate e assemblate in maniera tale da comporre assurdi matrimoni, capaci di dar vita ad ambienti spiazzanti nei quali la dimensione quotidiana diviene presto un mondo “altro”.

Tutto sommato non siamo lontani dagli “arredi celibi” che prepara in parallelo Marco Samorè (non per nulla coetaneo del Nostro), anche se nel caso di Favelli sembra più indicato parlare di “arredi onirici”, intendendo con un simile attributo richiamare la lezione della Metafisica. Se infatti è ormai evidente la sostanziale affinità tra gli “spaesamenti” ottenuti in pittura da De Chirico e le libere ricollocazioni di “oggetti trovati” praticate dai dadaisti[1], sarà senz’altro possibile leggere l’oggettualismo di Favelli alla luce dei meccanismi onirici di cui la Metafisica si fa portavoce, vale a dire delle attività note a Freud come “spostamento” e “condensazione”[2]. Decisamente “spostate” rispetto al loro habitat risultano allora le sedie, le panche, le testiere di letti de La terza camera, tutte disposte su una pedana bianca e orientate nella stessa direzione, in una immobile attesa. Come non pensare in proposito ai celebri Mobili nella valle dechirichiani? Tra i numerosi esempi di questa modalità d’intervento si ricorda inoltre l’insolito trasloco subito dalle insegne luminose dell’Alfasud e del Totocalcio, simbolicamente collocate sulla facciata del Palazzo comunale di Termini Imerese (Alfasud 1×2). Altrettanto efficaci si rivelano poi le soluzioni che “condensano” elementi estratti dai contesti più disparati: tali unioni danno origine a mostruosi innesti che mantengono pur sempre la possibilità di rintracciare gli ambiti di appartenenza dei singoli frammenti, proprio come accade nei sogni. Pensiamo a Palco-buffet, attualmente nelle collezioni del MAMbo, dove un ripiano di mattonelle bianche e nere viene inserito all’interno di una misteriosa tribuna, conferendole l’aspetto di una gigantesca scacchiera o di un assurdo confessionale; oppure a opere come Gold Cola e Fanta amica Fanta, nelle quali la sapiente ibridazione tra utensili in ceramica e prodotti di ampia diffusione rimescola i quozienti di eleganza e dozzinalità, scoprendo il banale nei primi e l’incanto nei secondi. Altri casi di “condensazione” li troviamo nei collages di francobolli o di comuni carte di cioccolatini, insospettabili riserve di splendori cromatici incorniciati da altezzose cornici in pastiglia.

Tutto è domestico, persino familiare, nell’opera di Favelli, eppure tutto appare subito estraneo, come se lo vivessimo per la prima volta, secondo il copione delle improbabili messe in scena del maestro ideale De Chirico. Anche la collocazione temporale degli assemblages favelliani può definirsi metafisica, nel senso che le loro componenti oggettuali risalgono spesso a un passato imprecisato, definito dal Nostro come inesistente, privato, magicamente sospeso al pari del possibile utilizzo pratico di quelle componenti, sempre sollecitato e immediatamente negato.

Vale la pena a questo punto ricordare il recente orientamento che ha portato Favelli a sperimentare una singolare forma di writing. Si tratta di prelevare scritte “già fatte” da giornali o riviste per dipingerle, opportunamente ingrandite, su alcuni muri significativi della penisola, conservandone però il font originario. Succede, per esempio, che il “Campioni del mondo!” con cui la Gazzetta dello Sport festeggiava una storica vittoria dei mondiali calcistici sia riproposto su un muro di Mirandola, città colpita dal terremoto, al modo di una spensierata esortazione (1982). Ecco dunque emergere un velo di ironia, del resto caratteristica di quella speciale “ars combinatoria” che Favelli condivide con i sogni e le metafisiche.

 



[1] Uno dei primi studiosi a segnalare tale corrispondenza è stato Maurizio Calvesi. Cfr. M. CALVESI, La Metafisica schiarita, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 210.

[2] Per l’omologia tra queste attività oniriche e l’opera di De Chirico si legga R. BARILLI, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano, 1984, pp. 208 e ss.

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