Le Avanguardie tre volte all’indice (ma con piacere)

Pierluca Nardoni. Giunto alla sua sesta edizione, il RoBOt Festival si conferma una rassegna capace di calamitare alcune delle migliori forze creative del momento, muovendosi in maniera efficace tra la musica elettronica e le arti visive e performative secondo un’ottica che privilegia gli apporti delle più recenti tecnologie. Tra le proposte più interessanti di quest’anno va senz’altro segnalato il progetto ADvangarde / Innesti postmediali, nato dall’incontro tra Saul Saguatti (1966), Audrey Coïaniz (1978), ossia i due volti del gruppo Basmati, Pasquale Fameli (1986) e il musicista Bartolomeo Sailer (1971). Ospite di una selezione di artisti presentata a Palazzo Re Enzo, il quartetto mette in campo uno spettacolo coinvolgente che riesce a combinare una calibrata ricerca concettuale con la dimensione dinamica e sinestetica del live media. Se è vero, infatti, che il progetto si sviluppa con l’intento di rivisitare il cinema delle Avanguardie storiche, i modi in cui quel cinema è riproposto si allontanano dal piglio speculativo del détournement situazionista e dei suoi assurdi montaggi: le immagini di film quali Anémic Cinéma di Marcel Duchamp, Ballet mécanique di Fernand Léger o Le Retour à la Raison di Man Ray vengono volta per volta proiettate sui tre schermi della sala Re Enzo dove subiscono affascinanti metamorfosi grazie a interventi di live painting e di glitch, il tutto accompagnato da una Gymnopédie I di Erik Satie opportunamente distorta per via elettronica. Si tratta pertanto di un’operazione raffinatissima che mescola i diversi media portandoli a ibridarsi gli uni con gli altri, in linea con quella condizione che Rosalind Krauss ha definito postmediale, proprio per indicare l’attuale perdita di specificità dei linguaggi e dei media artistici[1]. Va detto però che tra tante ibridazioni c’è anche posto per salvaguardare il video originale, il quale si mantiene integro nell’oasi “protetta” dello schermo centrale. Ma sono gli schermi laterali a proporre le partite più avvincenti, come per esempio quella tra il modello analogico e il modello digitale, dove il primo è ben rappresentato dai disegni su sabbia e dagli inserti oggettuali con i quali la Coïaniz “sporca” le sequenze del film, mentre il secondo emerge in forze dalle manipolazioni glitch cui Fameli sottopone i codici sorgenti delle immagini (e in fondo sono glitch anche i disturbi e le rotture con cui Sailer distorce il pezzo di Satie). ADvangarde / Innesti postmediali vive di questi attriti, riuscendo efficacemente a comporli (e in ciò risiede la sua forza) secondo inediti matrimoni: si pensi alla dialettica tra il castigato bianco e nero del cinema sperimentale e i colori rutilanti delle improvvisazioni sopra descritte, oppure al dialogo tra la memoria del passato conservata nei film e l’attualità bruciante del live, da cui nasce una valida possibilità di riappropriarsi di quel patrimonio visuale ormai sconfinato che corrisponde al database del web[2].

Esiste inoltre una logica che accomuna nel profondo i diversi livelli di intervento e dobbiamo rintracciarla in quella particolare categoria di segni che Charles Peirce ha denominato “indici”. A una simile tipologia, com’è noto, appartengono tutti quei segni che producono senso tramite un rapporto fisico e diretto con il loro referente, come per esempio le ombre, i sintomi medici e la fotografia. Se il cinema, quale erede del mezzo fotografico, apparirà subito come un naturale portatore di indicalità, non ci aspetteremmo di trovare una simile caratteristica nel live painting e nel glitch. Eppure, quanto il primo è un diretto discendente della gestualità pastosa o guizzante della pittura informale, della quale accentua il quoziente di “traccia” in presa diretta di un movimento corporeo[3], tanto il secondo s’insinua nel codice genetico del messaggio visivo per farne affiorare un campionario di “impronte”, segni tangibili di un intervento che si manifesta nello spettacolo caleidoscopico dei pixel. I tre video si presentano dunque come tre diverse maniere di affrontare il problema dell’indice, oppure, se si vuole, come una triplice “messa all’indice” delle Avanguardie, laddove la messa all’indice non sarà certo da intendersi come un desiderio di abrogare e cancellare ma, al contrario, come un tentativo di rileggere le esperienze avanguardistiche alla luce di una sottile operazione concettuale, senza trascurare un’abbondante dose di piacevolezza estetica.



[1] Si veda in proposito R. KRAUSS, L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, trad. it. Postmedia, Milano 2005.

[2] Per un’acuta interpretazione della “logica del database” si veda L. MANOVICH, Il linguaggio dei nuovi media, trad. it. Edizioni Olivares, Milano 2002, pp. 281-302.

[3] Per una lettura del gesto informale come indice si veda R. KRAUSS, Jackson Pollock: una lettura astratta, in EAD., L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, trad. it. Fazi, Roma 2007, p. 242.

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