La vista, al limite border:solid

Pierluca Nardoni. Se al giorno d’oggi qualcuno intendesse tracciare una mappa delle tendenze artistiche in corso, si troverebbe di fronte a più di un bivio. Tra soluzioni concettuali e riabilitazioni dei valori sensibili, recuperate manualità e acute spersonalizzazioni, fisici ingombri e brillanti smaterializzazioni, magari ottenute grazie ai mezzi video-acustici, gli artisti odierni sembrano affidarsi volta per volta all’uno o all’altro pacchetto di pratiche, riuscendo nei casi migliori a contaminarli per giungere a una affascinante conciliazione degli opposti. Di fronte a questa esuberante eterogeneità che coinvolge ogni sorta di medium, la scelta di Matteo Babbi (1986) e di Alice Cesari (1986) di affidarsi, rispettivamente, all’uso quasi esclusivo di pittura e fotografia suona quasi come un castigo. Se poi consideriamo gli scarsi consensi ottenuti in questi anni dal mezzo pittorico su supporti tradizionali, verrebbe quasi da parlare, almeno nel caso di Babbi, di un artista fuori moda. Ma è proprio dalle opere di Babbi che dobbiamo partire per comprendere i presupposti di questa mostra dal titolo un po’ arcano, border:solid. Per “bordo solido”, nel linguaggio di formattazione dei siti web, s’intende pressappoco il margine, le linee di contorno con le quali appaiono gli elementi sulla schermata del pc. A voler essere precisi si tratta in realtà di un comando, o quanto meno di un invito ad agire, a tendere l’attenzione verso i bordi, le recinzioni, i perimetri di contenzione delle immagini. Si osservino ora i dipinti in esposizione: guidati da quell’invito balza subito agli occhi l’assenza di cornici, tanto che in sede di allestimento si è resa necessaria una serie di mensole per rendere visibili i quadri, altrimenti destinati ad essere appoggiati sul pavimento. Da qui un senso di precarietà, confermato dal supporto povero e facilmente deformabile del cartone pressato. Sembrerebbe una sistemazione quasi casuale, da riservare a un relitto. Eppure c’è qualcosa di nobile in quei candidi piani d’appoggio e la misura monumentale dei dipinti richiede senz’altro uno sguardo non superficiale. Si scopre allora che Babbi pratica una figurazione con fare largo e impetuoso a ricordo dei Neuen Wilden tedeschi, se non altro per le violente rotture cromatiche. Rispetto a Kiefer e compagni c’è però una maggiore compostezza che consente persino la sfacciata riproposizione di anatomie umane, affrontate con un occhio quasi fotografico. Si veda Salvifico, dove due gambe ossute e fosforiche spuntano dall’alto, prontamente bilanciate da una pioggia di grossi listelli di colore nero che si dispongono sulla composizione come un curioso virus (a voi la scelta se biologico o informatico). E quei curiosi cerotti li ritroviamo anche negli altri lavori in mostra, vera e propria cifra stilistica che oscilla sapientemente tra l’allusione a un linguaggio criptato o cabalistico e l’innesto banale e livellante di tasselli che somigliano ad altrettante censure portate con mano grossolana. Se volessimo cercare un esempio del primo atteggiamento (ma le due caratteristiche sono in continuo dialogo) potremmo accostarci a Exit, un paesaggio sidereo dove le placche nere fanno risaltare per contrasto le liquide increspature della distesa bianca; il desiderio di abbassamento ricompare invece in #0000ff, dove le solite mattonelle di colore hanno ormai contagiato l’intera composizione e sollecitano la dialettica tra la figura resa con piglio mimetico e le bande orizzontali dello sfondo, stese con la sprezzatura di un bambino che impara a dipingere con software sul genere di Paint (si veda il particolare dell’aureola e dei pesci galleggianti sopra di essa). Rifinito e citazionista risulta il profilo dei cervi in Sette fratelli, ma in questo caso la figurazione diventa un pretesto per mettere in campo un concetto, un abbozzo di narrazione, che passa per alcuni documenti conservati in una sorta di tabernacolo e giunge, tramite la documentazione video di un’azione, alla scoperta di una costellazione appena percepibile di fori, praticati dall’artista direttamente sul dipinto. La produzione di Babbi oscilla pertanto in un felice equilibrio tra l’esito prezioso e la ricaduta nel kitsch, tra l’apparente incuria stilistica e il richiamo a un surplus di attenzione e, in fondo, tra la spinta ambientale di questi enormi quadri “mobili” e una inevitabile pesantezza.

Messa a confronto con l’ostinata caparbietà del compagno di strada, la ricerca della Cesari appare più inquieta e versatile. L’appello a un affinamento dell’organo visivo si fa nel suo caso ancora più evidente, basti pensare al soggetto quasi didascalico della foto di Inoculazioni: si tratta di uno scatto che coglie una ragazza di fronte a uno specchio nell’atto di mettere una lente a contatto. Il gioco concettuale del continuo rimando all’attività oculare viene poi potenziato da alcuni frammenti tratti da copie della fotografia principale che vengono disposti attorno alla foto stessa, tutti tassativamente privi di cornici. Ma l’aspetto speculativo non predomina, controllato da un’attenta regia formale che colloca i lacerti fotografici secondo una struttura elegante ed effimera, pronta a ricevere nuove configurazioni non appena s’alzi una folata di vento. Questa ideale “storia dell’occhio” prosegue occupando due sottili mensole, ossia sfruttando lo stesso espediente che Babbi adotta per sporgere timidamente le sue tele verso lo spazio tridimensionale. Nel caso della Cesari, però, dobbiamo segnalare una fuoruscita più decisa, benché minuta: su un ripiano troviamo infatti una lente d’ingrandimento e un libro di micro-fotografie che ritraggono occorrenze elementari, quasi che la lente ci possa aiutare a decifrare quei minuscoli brandelli di esistenza e a scoprirne le storie nascoste. Sul secondo ripiano un vassoio contiene due lenti a contatto, in una sottile allusione all’iconografia cristiana del martirio di Santa Lucia. Completa l’installazione un piccolo visore binoculare piantato nel muro che sembra suggerire una via artigianale e squisitamente ingenua per attingere alla vista a raggi infrarossi. C’è una forte attitudine narrativa in queste opere, da intendersi sia nel senso di un’allusione all’ambito cinematografico (le foto del libriccino come assurdi fotogrammi, la visione stereoscopica del binocolo), sia nel senso di un recupero della Narrative Art, opportunamente aggiornata alla luce delle odierne risorse tecnologiche. Laddove gli artisti Narrative si limitavano ad aggiungere testi verbali alle loro fotografie, la Cesari dota La notte di una registrazione audio che va a doppiare un testo redatto a mano e completa l’immancabile intarsio di istantanee. Ne emerge un’installazione suggestiva, grazie all’effetto stridente creato dalla giustapposizione di una voce robotica e monocorde (frutto di un software di sintesi vocale) e il tono intimo e confidenziale dello scritto, tratto da una scena del film La notte di Michelangelo Antonioni. Anche in questo caso l’intervento fotografico richiede un supplemento di attenzione per cogliere un lieve reticolo di graffi che sembra voler incidere l’epidermide della carta. E un gioco di “pelli” può dirsi anche la serie Degenerazioni, che parte da un’immagine elegante, degna di figurare sulla copertina di Vanity Fair, ma poi lascia campo libero al lavorio degli acidi, che logorano il ritratto fino a farne una coltura di macchie informi. Il risvolto interessante di questo complesso risiede ancora una volta nella sua peculiarità installativa, dato che le foto si dispongono spesso a palinsesto, come a mostrare gli strati delle loro metamorfosi, tanto che verrebbe quasi voglia di strappare via via le varie falde per scoprire cosa c’è sotto.

Se volessimo cercare un fil rouge che accomuni le produzioni di Babbi e Cesari potremmo forse trovarlo nella volontà di giocare con le regole dei propri mezzi d’espressione, al fine di forzarne i limiti senza tuttavia abdicarli del tutto. Un po’ come accadeva nel gruppo letterario dell’Oulipo che sottoponeva i propri membri a vincoli rigidissimi per cercare nuovi spunti creativi, anche Babbi e Cesari insistono sui limiti, sui “bordi”, appunto, del loro linguaggio. E finiscono per assegnare a mezzi prettamente visivi come la pittura e la fotografia qualche gratificazione tattile e uditiva. Fino al prossimo limite.

 

*Testo critico pubblicato in occasione della mostra border:solid presso il concept space Un Altro Studio

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