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Un’arte che tutti vedono. Ma cos’è davvero l’Arte Pubblica?

Elisa Daniela Montanari. Le categorizzazioni sono molto utili alla comprensione dei concetti e alle definizioni dei movimenti, soprattutto in ambito artistico. Ma cosa accade se la parola che dovrebbe racchiudere un fenomeno diventa la maggiore fonte di ambiguità? Succede quello che è successo al concetto di Arte Pubblica.

Tutti ne avranno sentito parlare essendo,  dagli anni Novanta in poi, diventato un fenomeno molto di moda. Chissà in quanti potrebbero fare un esempio di un’ opera che rientri nella categoria dell’ Arte Pubblica; ma in quanti saprebbero veramente definirne i parametri? In pochi, e questo perché i parametri precisi sono ancora da definire. Questo non vuol dire che non esista un’ origine del termine o una sua evoluzione, ma che la sua evoluzione non ha seguito una sola strada ma si è fatta carico, man mano, di significati diversi.

Ma procediamo con ordine.

La parola “Arte Pubblica” deriva da un’ espressione inglese, coniata sul finire degli anni Sessanta, che definiva l’opera d’arte come nata da commissioni pubbliche e inserita in un luogo di fruizione pubblica.

Le Istituzioni così, captano e interpretano un desiderio ormai diffuso dell’arte contemporanea: uscire dai luoghi a Lei destinati e rivendicare un posto nella città, nel suolo pubblico appunto. Il desiderio di fusione tra arte e vita dei movimenti quali Fluxus, Situazionismo, Happening pone un ponte di rimando. Ed ecco che, uscita dal contesto museale, la “nuova” arte, col passare del tempo, cerca legami sempre più saldi; prendendo spunto inizialmente dalla Minimal e dalla Land Art l’opera pubblica inizia a sentire la necessità di creare un dialogo con il luogo ospitante e con gli elementi formali che la circondano: non vuole più essere distaccata dal contesto da un piedistallo ma diventarne parte integrante (site specific). Dopo gli elementi formali, è la volta del legame con la storia e le tradizioni del sito; gli artisti sono tenuti ad informarsi sulle tradizioni del luogo e a creare un’ opera che non dia un taglio netto col passato ma che ne sia un’ evoluzione. Infine è il momento di crearlo col fruitore. Negli anni Novanta la partecipazione del pubblico e la volontà di comunicare diventa di primaria importanza, tanto da coniare un nuovo termine che a volte funge quasi da sinonimo: Arte Relazionale.

L’Arte Pubblica inizia a essere inserita così in progetti di rigenerazione urbana non solo per la sua funzione positiva estetica ma anche per il sentimento comunitario che si spera di instaurare coinvolgendo il pubblico nella sua creazione.

Il desiderio di comunità è globale, non solo comunione tra le persone e il luogo, ma anche tra l’arte, l’architettura, il design e lo spazio circostante, in un avvolgimento che esorcizza la paura della diffusione dei non luoghi e quindi della loro incuria.

Chiaramente nel corso del tempo il primario significato del termine pubblico inteso come «commissionato da istituzioni pubbliche», perde il suo valore in quanto anche i privati iniziano a investire in opere così visibili e dall’intento così. Ed ecco che iniziano le ambiguità.

L’Arte Pubblica può derivare sia da commissioni pubbliche che private; si trova sul suolo pubblico ma non è necessario che questo appartenga allo Stato; cerca di istituire un dialogo con ciò che la circonda, dall’ambiente alla storia del luogo ai cittadini che lo abitano, ma si distingue dai monumenti storico celebrativi. Il suo intento è quello di comunicare con tutti, dal nonno al bambino e non solo con chi la cerca nei luoghi deputati all’arte e la si può trovare ovunque. Ecco che allora diventa facilmente comprensibile il motivo dell’ambiguità del termine e il suo utilizzo spassionato.

Probabilmente l’unica caratteristica che resterà immutabile e che ne caratterizzerà ogni sua sottoclasse, è il suo esser gratuita. E con i tempi che corrono, non è certo da sottovalutare.

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