Pesi e misure del gesto e del suono: Christoph De Boeck

Pasquale Fameli. Intorno alla metà degli anni Sessanta, musicisti d’avanguardia come Alvin Lucier, Max Neuhaus, Takehisa Kosugi e molti altri[1], interessati al rapporto tra suono, corpo e ambiente, hanno colto a piene mani la lezione di John Cage per svilupparla attraverso un vivificante utilizzo dei mezzi elettronici. La traduzione di gesti e movimenti del corpo in sonorità elettroniche, così come l’amplificazione di feedback e risonanze di luoghi e ambienti, non restaurava una primitiva musicalità corporale[2] attraverso la tecnologia, ma demoliva completamente la figura tradizionale del compositore, ora chiamato semplicemente a innescare processi di interazione, rendendo i fruitori parte attiva e necessaria per l’attivazione e lo svolgimento dell’evento sonoro. Lungo questo asse, tutt’oggi prolifico, si pone anche la ricerca di Christoph De Boeck (1972), che compie la propria indagine estetica sulle possibili variazioni percettive che le molteplici relazioni tra suono e ambiente possono subire attraverso la presenza e l’azione del corpo umano. In Hortus (2012), infatti, il visitatore è invitato a spostarsi in un giardino in cui una rete di sensori misura le dinamiche del vento e della luce assorbite dalle piante durante i comuni processi di fotosintesi, traducendoli tramite appositi algoritmi in un coro di sintetici cinguettii che riconfigura virtualmente il paesaggio sonoro[3] in questione, simulando l’invisibile presenza di uccelli. Un’altra installazione basata sul funzionamento di una rete wireless è Cell (2012), un cilindro in acciaio che nasconde dei sensori dedicati alla misurazione delle variazioni interne all’ambiente: l’amplificazione delle basse frequenze crea un materasso di aria tra l’architettura e il visitatore al suo interno, ponendo così in risalto le strette relazioni esistenti tra la sfera uditiva e quella tattile. Su una logica non troppo diversa si basa anche Time Code Matter (2007), una sorta di arena costeggiata da fogli di acciaio massiccio posti in vibrazione da onde sonore a bassa frequenza che si amplificano all’avvicinarsi del fruitore, aumentando la velocità delle vibrazioni; quasi concretizzando ormai lontani, ma quanto mai attuali, assunti futuristi[4], la potenza cinetica e dinamica del suono viene posta in risalto, ancora una volta, attraverso la necessaria mediazione del corpo in movimento. Su un più alto livello di rarefazione si pone invece il funzionamento di Staalhemel (2009), un vero e proprio “cielo d’acciaio” composto da ottanta elementi metallici appesi che vengono percossi da piccoli martelli attivati dalle onde cerebrali del visitatore mediante uno scanner portatile EEG. Si tratta di una sorta di traduzione sonora dell’attività cerebrale, quasi una potenziale “musica di testa” che viene condotta dall’intimità e dall’impercettibilità del pensiero alla pur evanescente ma incisiva fisicità del rumore percussivo. È possibile individuare in quest’opera una rivisitazione estesa su scala ambientale di una delle più note operazioni di Alvin Lucier, Music for Solo Performer (1965), dove l’amplificazione delle onde alfa rilevabili sulla calotta cranica dell’individuo dava vita a una sessione di pura improvvisazione musicale elettronica. L’indagine di Christoph De Boeck sul rapporto tra suono e corpo non può non interrogare anche la sfera della vocalità, luogo di origine e sviluppo di uno degli strumenti più efficaci e duraturi dell’interazione umana, il linguaggio. Con Language I (2009), infatti, De Boeck appronta un sistema sonoro che simula la struttura discrezionale alla base di ogni codice linguistico generando flussi asemantici che si sottraggono a qualunque possibilità di interpretazione logica: il susseguirsi automatizzato degli elementi produce sequenze ritmico-fonetiche che vogliono offrirsi come presupposti formali del linguaggio, come qualità minime, elementari e primitive dell’espressione vocale, antistanti a qualsiasi forma di codifica sintattica e lessicale.



[1] Su questi e altri autori affini si veda M. NYMAN, La musica sperimentale (1974), trad. it., Shake, Milano 2011.

[2] La musica trova, infatti, le proprie origini nel movimento del corpo umano e nella sua interazione con l’ambiente. Per approfondimenti sull’argomento si vedano A. SCHAEFFNER, Origine degli strumenti musicali (1936), trad. it., Sellerio, Palermo 1996, e C. SERRA, Musica Corpo Espressione, Quodlibet, Macerata 2008.

[3] Per chiarimenti e approfondimenti in merito al concetto di “paesaggio sonoro” e per tutte le problematiche a esso correlate si rimanda a R. MURRAY SCHAFER, Il paesaggio sonoro, trad. it., Ricordi – Unicopli, Milano 1985.

[4] L’esaltazione del dinamismo e del rumore, spesso intrecciati in una stimolante configurazione sinestetica, emerge in numerosi punti della teoria futurista, costituendone uno degli assunti fondamentali. A titolo esemplificativo si vedano almeno C. CARRÀ, La pittura dei suoni rumori e odori, Manifesto futurista, Direzione del Movimento Futurista, Milano, 11 Agosto 1913; L. RUSSOLO, L’Arte dei Rumori, Edizioni futuriste di “Poesia”, Milano 1916; F.T. MARINETTI, La declamazione dinamica e sinottica, Manifesto futurista, Direzione del Movimento Futurista, Milano, 11 marzo 1916. Per altri importanti manifesti futuristi si veda L. DE MARIA (a cura di), Marinetti e i futuristi, Garzanti, Milano 1990.

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