Nibiru

Paola Pluchino. L’antica civiltà sumera offre a noi contemporanei un ricco bagaglio di stimoli e di simbologie. Stranamente, nonostante il lasso di tempo che ci divide sia considerevole le immagini che ci hanno lasciato si mostrano a noi oggi come chiarissime, per narrazione e contenuti. Tra le storie che sulla pietra lì sono raccontate una colpisce per la sua attualità: è Nibiru, il pianeta alato o quello che ritorna, come oggetto triangolare simile ad un astronave. Una strana sinonimia unisce versanti così opposti della cultura, la scienza da una parte e l’arte dall’altra. Della sua profetica potenza immaginifica è sempre stata il volano dell’arte e gli addetti ai lavori sono ormai abituati all’osservazione di fenomeni e prospettive di ricerca che partite dall’arte affascinano poi le altre scienze. Penso soprattutto alle energie futuriste, al fitomorfismo di Mirò, e oggi penso anche e soprattutto alla sound art, novella sperimentatrice di comunicazioni celesti.
Sono passate molte lune e molte processioni, anche di primitivi, poi di artigiani e oggi di artisti, ma ciò che ha accomunato nei secoli questi esploratori del cielo è sempre stata la voglia e l’elasticità mentale di cogliere ciò che non si è mai rivelato completamente, ciò che germina endemicamente tra le piaghe della società, negli interstizi di uno spazio pubblico, tra il passo e quello dopo dell’uomo. Una spinta alla conoscenza che avvicina sempre di più gli antipodi di questa civiltà costringendo lo stesso concetto di tempo ad una sua espansione: non è più solo il tempo a collassare avvicinandosi ma anche i campi del sapere umano. Così oggi agli addetti ai lavori è richiesta ancor più sapienza e – se ciò fosse possibile – sensibilità per non stupirsi se per avvalorare una tesi sonora si guarda oggi al cielo.

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