The brain is the real center of music (Peter Weibel)

Paola Pluchino.  L’armonia delle sfere procede dalla moltiplicazione dei suoni della natura, teoria delle affinità elettive che susseguendosi vicendevolmente si influenzano, nel rapporto reciproco che instaurano tra corpo e corpo.

Fin dai Manifesti Futuristi di Luigi Russolo, oltre il movimento Fluxus e l’estremo sperimentalismo di Jhon Cage, LaMonte Young e Ryoji Ikeda, Douglas Henderson applica l’assetto urbano al suono, esprimendolo all’interno dell’ambiente in cui questo viene generato e prodotto. Figlio di una poetica musicale poco incline alla concettosità affascina lo spettatore con le sue installazioni site specific, come Music From Empty Holes, in cui l’archeologia industriale è mezzo cui accedere per un riempimento interiore, prodotto altro rispetto alla musica imitativa e classica.

Se gli addetti ai lavori potrebbero qui in Italia storcere il naso di fronte e alla considerazione della musica urbana come oggetto d’arte (quella Sound Art molto in voga invece a Berlino) e alla bigotta presa di posizione che si, bella ma questa musica rimane solo un rumore, Douglas Henderson risponde con la maestria dell’avanguardista, con la preveggenza di chi scopre, lontano dalla calcificazione di categoria, con fare capace e innovativo una linea creativa non umana ma organica (Inorganico od organico sono la stessa materia, Gilles Deleuze, La piega. Leibiniz e l’universo barocco).

Lo studio del rumore, l’idea del registrare il passo come corde di un’arpa, l’ibridazione dei linguaggi visivi insieme a quelli sonori rivelano in lui una componente rivoluzionaria, celebrata in una retrospettiva a lui dedicata (opening 9 marzo) presso la visionaria Galerie Mazzoli di Berlino e all’apertura in contrappunto (17 marzo) della collettiva presso lo ZKM di Karlsruhe con Christina Kubisch, Serge Baghdassarians e Boris Baltschun.

Il suono è il rifugio e la parola sicura di un’arte che a volte vacilla nell’arroganza e nella supponenza di saper dire e sapere come dirlo, uno spazio conversazionale quasi saturo e perlomeno colmo di antinomie pervasive e diversificanti che, lungi dal produrre il nuovo o l’espressivo, spesso tendono solo all’autocelebrazione, a una ripetizione stantia e sterile di forme del dire già trascorse, già battute, popolarmente “già viste”. In una contemporaneità che fatica a svecchiare i propri contenuti negli stili e nei modi, dove anche l’eccesso di originalità si rivela anti – comunicativo e improduttivo, Douglas Henderson riesce, col rischio di venir frainteso e tacciato come anti – artistico e al limite col design sonoro, ad esprimersi contestualmente allo spirito del tempo, muovendo le corde della modernità con fare metodico e istintivo a un tempo, producendo nello spettatore collassi mentali di origine arcaica e futura: una nuova architettura del tempo, un nuovo modo di fruizione del divenire. ( una teoria del soggetto che costruisce se stesso in relazione al futuro piuttosto che attraverso le modalità della memoria sembra richiedere un’architettura totalmente nuova del tempo. Daniel Birnbaum, Cronologia, p.99)

Come il principio di Chevreul, applicato pedissequamente dalla mano serausiana, presupponeva che il colore venisse lasciato puro, mischiandosi solo successivamente nella retina, così cogliendo il tutto dell’opera, con Henderson (come accade per On the Road Home) solo nel circolo  dell’energia sonora prodotta da stanza a stanza, l’orecchio raccoglie e trasmette, al nervo vago dell’arte, innumerevoli stimoli sonori, come spiriti sottili che attraversano la multisensorialità e la policromia dell’evento originario.

Lo stile di Henderson, lungi dal venir all’oggi tacciato di lontananza dall’arte deve essere riabilitato e, elevato nel novero della contemporaneità essere ascoltato in tutta la sua potenza erotica, nel suo fare trascendente all’occhio, nella sua veemenza arcana, in linea con quella purezza visiva che anche i minimalisti cercavano di sperimentare.

Indietro fino ai riti tribali, al sacro attendere delle celebrazioni, Douglas Henderson regala al pubblico la possibilità del ricordo, della nostalgia, dello spirito interiore che prende corpo, spogliando il dionisiaco dalla sua componente terrena e futile.

Un Pasto Nudo direbbe Burroughs, dove il terribile senso delle pulsioni  si connette al suono che permea l’aria e in successione si riflette.

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