Gli “ambienti in meno” di Haroon Mirza

Pasquale Fameli. Con la sua sofisticata ricerca oggettuale, il britannico Haroon Mirza (1977) si rivela capace di assorbire e condensare molti degli stimoli più nutrienti di tutto il secolo scorso. Il suo modus operandi si basa sulla decostruzione degli ambienti di tutti i giorni. Oggetti come mobili, sedie, tavoli, televisori e apparecchi radio vengono decontestualizzati e ricombinati in configurazioni improprie e inusuali, invitando il fruitore in una dimensione parallela, traslata, in cui l’oggetto più banale viene ripresentato sotto una diversa luce, in uno spazio sospeso. Questi ambienti-assemblaggi non hanno certo il carattere soffocante, quasi da accumulo compulsivo, che fu del Merzbau schwittersiano: quelli di Mirza sono infatti ambienti scarni, dati per sineddoche, attraverso elementi minimi o parziali, accennati o mutilati e che, parafrasando il titolo di una famosa opera di Michelangelo Pistoletto, si potrebbero definire come “ambienti in meno”.

I frammenti di mobilio e gli oggetti coinvolti vengono privati della loro funzione ordinaria e dati come “arredi celibi”, non troppo dissimili da quelli già visti presso Haim Steinbach, John Armleder o Marco Samorè, nello spirito più mondano dell’oggettualismo tardonovecentesco, capace di offrire ancora interessanti soluzioni estetiche, soprattutto nelle possibilità, attuate da Mirza, di vivificanti coniugazioni con il video e con il sonoro. Negli ambienti di Mirza, infatti, vecchi mobili e antiquate tecnologie audiovisive di sapore vintage, ormai reperibili solo presso nostalgici negozietti di modernariato, vengono riscattati dalla veloce obsolescenza cui sono soggetti e posti in dialogo con più attuali apparecchiature elettroniche, come computer, lettori CD e videoproiettori. Ma nelle installazioni del giovane artista britannico, il vuoto sembra sempre prevalere sul pieno, in un’inevitabile necessità di alleggerimento che trova nel suono il suo massimo compimento: questa quotidianità alterata, traslata e “sottratta”, viene, infatti, dotata di ossessive sonorità elettroniche, di una micro-musica scarna e ripetitiva che entra in relazione con lo spazio, ritmandolo. Insieme a mobili, sedie e televisori troviamo implicati infatti strumenti per audiofili come giradischi, amplificatori, monitor, spugne fonoassorbenti e radio, che ben dispongono all’assemblaggio di coinvolgenti mix sinestetici. Emblematici di tutto ciò sono opere come Backfade_5, una discoteca minimale fatta di un perimetro di led luminosi riempito da un goffo e ripetitivo motivetto dance che fuoriesce da un paio di altoparlanti “ubriachi”, riversi sul pavimento, oppure Sanctuary, una discoteca “esplosa” in cui un ritmo distorto e maldestro accompagna il girotondo di una radiolina su un piatto da dj, o ancora Evolution of a Revolution, un’altra discoteca deflagrata in cui la rotazione dei giradischi viene sonorizzata dallo strofinio di un dito sull’orlo di un bicchiere.

Più sommessa è invece l’atmosfera di Adhan, un soggiorno letteralmente devastato e musicato dal reiterato frammento di un brano country con tanto di abat-jour intermittente. A ben guardare, si tratta di veri e propri “concerti di oggetti”, di riqualificazioni musicali del banale che scaturiscono da uno spirito di matrice Fluxus, non troppo diverso da quello che aleggia intorno ai violinisti meccanici di Joe Jones o ai collage vinilici di Milan Knížák. Ma il lavoro di Haroon Mirza offre anche un interessante spunto per una riflessione sulla logica di fruizione delle installazioni sonore più in generale. In molte di esse, infatti, a prescindere dalle singole differenze, si può notare che la presenza degli altoparlanti è spesso ridotta a una subordinazione funzionale: in quanto oggetti, essi non entrano mai nel circuito della fruizione, limitandosi a restare meri supporti. Nelle opere di Mirza però, la cassa che suona, che veicola la riproduzione di un brano musicale, si impone alla fruizione con tutta la sua materialità, in tutta la sua valenza di oggetto che connota e caratterizza la nostra quotidianità. È questo, forse, retaggio di una delle più importanti lezioni lasciate da Cage e da Fluxus, e cioè la possibilità di trovare la musica nel quotidiano, di rintracciarla nella vita di tutti i giorni, inseparabilmente dal caotico pullulare degli oggetti che la generano e che la producono.

About theartship