L’attualità dell’altrove beniano

L’essenza dall’assenza

The Hebrides (Fingal’s Cave) – Overture di Felix Mendelssohn

Federica Fiumelli. Ero al primo anno di Università e stavo preparando l’esame di Storia del Teatro, quando su uno dei manuali di studio lessi: “[…] recitazione deformata e fisicizzata, la quale propone una partitura sonora non realistica; movimenti eccessivi, ripetitivi e sincopati; vocazione all’esibizionismo e allo scandalo, gusto luciferino per parodia e dissacrazione, predilezione per il pastiche e la sintesi d’ impronta nettamente futurista, l’essere contro sia nel teatro che nella vita, preferenza quasi assoluta per determinati periodi della drammaturgia quali l’Elisabettiano e il Simbolista tardo-ottocentesco.”

Poche righe dalla penna di Marco De Marinis, l’insigne professore di Storia del Teatro, per innescare in me la voglia di scoprire Carmelo Bene.

Così iniziarono le mie ricerche sul web e libri.

Fu così che vidi l’Hamlet ed ebbi un colpo di fulmine.

Non mi dimenticherò mai i brividi che mi costellarono d’emozione durante il monologo:

Quando ho fame ho fame, quando ho sete ho sete, quando ho voglia ho voglia, e allora se l’idea della morte mi è così lontana, vuol dire che la vita mi è in balia, che la vita mi reclama, e allora, vita mia a noi due!

Mi innamorai di qualcosa o di qualcuno che materialmente non esisteva più.

Quell’esistenza che lo stesso Bene diceva di non possedere.

Non esisto dunque sono. Altrove. Qui. | Dove? m’apparve il sogno ad occhi aperti | di Lei che non fu mai | Colei ch’è mai vissuta e mai morì (da La voce di Narciso)

La sua era una vera voce di Narciso, pensare di non averla mai udita dal vivo, apre in me un senso di mancanza infinita, ma “Siamo, quel che ci manca. Da per sempre.” ( da Quattro momenti su tutto il nulla)

Pochi giorni fa, Mille e una notte Teatro su Rai Uno ha mandato in onda due puntate dedicate a Bene: una su Quattro modi diversi di morire in versi e l’altra sullo spettacolo di Pinocchio.

Guardando le puntate ci si accorge dell’attualità di Bene, nonostante, come scrive nell’Immemoriale Pier Giorgio Giacché:

“Non c’è un dopo Carmelo Bene. E non perché alla morte di un personaggio grande e di una persona cara si voglia assurdamente fermare il tempo, ma perché non c’entrava nulla con il nostro tempo. E ancora, non perché non sia mai stato attuale o presente, ma perché ostinato nemico di quel tempo cronologico, che si dispone lungo la linea della storia passata e corre verso il futuro della società.”

e ancora

“Non si tratta quindi di fermare il tempo, perché Carmelo è stato sempre abitante e demiurgo del tempo sospeso e del nessuno luogo del teatro. Del suo teatro va detto, giacché molti altri teatri si lasciavano volentieri contaminare dal tempo storico e dal luogo sociale: si credono specchi del mondo e si fingono mezzi di comunicazione a disposizione del pubblico. Nel suo teatro invece, non si dava alcuna prospettiva né si predicava una qualunque complementarità.”

Il non esserci mai, il non luogo, il fuori-tempo, questo altrove al quale tutti gli artisti tendono, rendono Carmelo Bene attuale proprio perché inattuale; il suo Teatro rende questi assunti  disponibili al nuovo giorno nascente, ogni giorno, proprio perché non etichettati e statici nei confronti di una determinata epoca storica. Il dinamismo beniano è quindi un regalo che il maestro ci ha lasciato.

Il suo continuo non essere è, e sarà per sempre, dando valore all’essenza dell’assenza.

Ha dato valore estetico al dramma dell’uomo, il dolore del non esistere; amando Bacon, è come se le tele di quest’ultimo avessero trovato posto nelle scene di Bene.

“L’arte deve eccedere dunque, deve anch’essa sempre superare se stessa, come ha fatto Bernini nelle sue Estasi […]”

Estasi quindi che indica un continuo uscire da sé, oltre che un altrove Bene, ha cercato un altro da sé. Un sé “contro tutti” come al Maurizio Costanzo Show del 1994:

“Io mi occupo solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti […] Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. […]. E questo si può dire. Chi dice d’esserci è coglione (sic) due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione (sic) una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: “Il significato è un sasso in bocca al significante”.

E mi viene in mente il video dell’artista Marcel Broodthaers che proprio come Bene studiava il linguaggio, vi si vede l’artista mentre scrive sotto la pioggia, i capelli e i vestiti fradici e il pennino intinto di inchiostro subito disciolto dalla pioggia battente sul quaderno. Sembra dire: “Vi mostro la mia cancellazione”. Perché alla fine rimane il nulla.

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