IL COME, IL QUANDO E IL PERCHÈ

Progetti irrealizzati e irrealizzabili

 Blauer Hase

 

Mario Ciaramitaro: Mettersi un paio di brache nuove e pensare a cose per il pubblico solo per il pubblico. Come un film è un processo di conoscenza e di intrattenimento, così realizzare progetti per le sole persone lì di fronte a noi. Le chiacchiere stanno a zero.

Riccardo Giacconi: Le cose di cui ci siamo occupati ultimamente sono dei progetti tuttora in corso, che possiedono una periodicità: la serie di pubblicazioni Paesaggio (una raccolta di paesaggi di artisti sotto forma di testo, senza immagini) e il festival Helicotrema, una sorta di festival di cinema senza immagini (radiodrammi, radiodocumentari, opere sonore di artisti e altre forme più difficilmente descrivibili). Tuttavia, la scelta di evitare l’immagine non è stata cosciente; non ne abbiamo mai parlato apertamente. Come mai è venuta fuori?

Daniele Zoico: Il fatto di non utilizzare immagini è stato un risultato che, considerando ciò che abbiamo fatto finora, non era così scontato; il mezzo dell’audio si occupa esclusivamente di essere acustico e, nel caso, di suscitare il visivo. Di recente ho delle idee che riguardano proprio l’aspetto visivo all’interno di un testo ad esempio, ma non si limitano alla grafica.

 

MC: Pensare al format come oggetto della ricerca. Attuare paradigmi ripetibili e esportabili, prendendo ad esempio realtà come BYOB.

DZ: Credo che i format dovrebbero essere originali e punto. Non trovo interessante replicarli in franchising: non dovrebbe essere un semplice PechaKucha da esportare in giro per il mondo. Molte volte i format, i progetti, hanno senso solo dove nascono.

MC: Sì, è vero. Forse posso precisare che mi attira l’idea di preparare progetti che poi possono essere utilizzati da altri. Come il cadavere squisito che da un secolo viene utilizzato da molti. Forse per format intendevo procedimento.

DZ: Penso che, dopo aver lavorato a diverse edizioni di Paesaggio, potremmo creare delle nuove modalità da mettere in parallelo, approfondendo ciò che per il momento è stato solo abbozzato. Vi ricordate quando organizzavamo le nostre prime interviste? Gillo Dorfles, i Raqs Media Collective, Stefano Boeri, Jan Hoet… non sono del tutto convinto che dopo Obrist il mezzo delle interviste sia esaurito. O almeno, non del tutto.

MC: Penso che ci sia moltissimo da indagare. Innanzitutto l’intervista, se genuina e preparata, è un ottimo modo per avvicinarsi a persone di cui si ha stima, per conoscerle meglio, per capire come muovere i propri prossimi passi guardando i loro. Allo stesso tempo l’intervista è così ampiamente utilizzata che ha assunto quasi di diritto uno status di veridicità, sincerità e testimonianza di uno scambio tra due persone. Nel 1964 Sigmar Polke e Gerard Richter inscenarono una falsa intervista dove Polke impersonava Mr. Twaites e Richter sè stesso. La conversazione appare ironica e quasi irriverente per certe affermazioni sui dipinti di Richter che apparendo troppo belli venivano utilizzati come strumenti di tortura. Utilizzare l’intervista in questo modo è per me molto attraente.

RG: Uno dei nostri progetti ancora non realizzati è quello di una mostra che non c’è. Potrebbe prendere la forma di una visita guidata di una mostra, in cui gli artisti raccontano le loro opere nello spazio espositivo. Fin qui nulla di strano. La particolarità, però, sarebbe che la mostra non ci sarà. Vale a dire: le opere raccontate, descritte, evocate dagli artisti non saranno fisicamente nello spazio espositivo, che sarà vuoto. Gli artisti, cioè, durante la visita guidata, parleranno di loro opere che non ci sono, per diversi motivi: sono state realizzate prima, ma non sono presenti al momento; sono state realizzate ma sono da qualche altra parte; o sono solo ipotesi di opere ancora non realizzate, o non realizzabili. La mostra verrebbe pensata proprio come una mostra tradizionale: cureremmo cioè l’accostamento dei pezzi, a livello sia tematico che spaziale, e la sequenza delle opere nel percorso espositivo.

 

DZ: E qui infatti le difficoltà che noi stessi abbiamo evidenziato stanno proprio nel comunicare un evento simile, che sconfina tra la performance e l’estremo concettualismo: l’ideale sarebbe evitare che il pubblico lo recepisca in maniera errata. Noi per primi ci siamo messi nei panni di chi si misurerà in tale operazione e abbiamo fatto le nostre considerazioni. Sarà una bella sfida questa volta, forse anche più delle altre.

 

MC: 1- Domanda in progress: esisterà un catalogo di questa mostra?

2- Credo che dobbiamo anche confrontarci con una eredità di spazi vuoti. Ormai saranno 60 anni che vengono presentati. Forse la direzione potrebbe essere specificare un solo motivo per cui le opere non ci sono: una mostra di opere perdute.

 

RG: O di opere irrealizzabili, come alcuni sogni.

 DZ: Penso anche al mezzo del video che ciascuno di noi ha spesso utilizzato e sono sicuro che sarebbe molto intrigante utilizzare le modalità con cui lavoriamo come collettivo e adattarle alla produzione di un lungometraggio: non ho davvero idea di cosa potrebbe uscirne, ma prima o poi occorrerà fare questo salto nel buio. Un po’ come al solito, no?

MC: Propongo di fare un film di genere. All’interno del film di genere inserire qualcosa d’inaspettato. Tipo un momento di attesa prolungato o un errore non concepibile o una presenza inopportuna.

Potrebbe essere un noir o un western o un film sul medioevo. Affidarsi a un panorama per remixarlo con elementi esterni e creare una interruzione.

RG: Un ultimo progetto irrealizzato di cui non abbiamo ancora parlato è qualcosa che ci frulla in testa da alcuni anni, cioè dal momento in cui restammo affascinati dalla presenza, a Venezia, del Consolato di Costa Rica…

 

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